Cataldo Campana crs

 

L’amore di Dio

è stato riversato nei nostri cuori

 

Ariccia, 2007-2008

 

 

PRESENTAZIONE

 

Questo corso di Esercizi si sviluppa in concomitanza con la celebrazione dell’anno “paolino”. Non desta meraviglia, quindi, il rimando alle Lettere del grande Apostolo per la riflessione e la preghiera che ci accompagnerà nei prossimi giorni sotto la regia dello Spirito Santo. Prima di addentrarci in una più profonda conoscenza del pensiero di san Paolo, così come ci viene presentato da Atti e dalle Lettere, fermiamoci ad esaminare i dati salienti della sua personalità.

Dalla famiglia Saul eredita il senso di una forte identità ebraica e dalla sua città di origine, Tarso, riceve l’impulso alla ricerca di sempre nuove frontiere. L’iter formativo e la personalità di Paolo si nutrono e vivono di questa duplice appartenenza, derivata dalla sua collocazione alla frontiera di due mondi, quello ebraico e quello ellenistico.

Ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla Legge.

Nato da genitori ebrei, uniti regolarmente in matrimonio. Della tribù di Beniamino alla quale appartengono Mardocheo, i Maccabei, il re Saul; una tribù, quindi, particolarmente zelante. A ciò si aggiunga l’appartenenza al partito dei farisei dei quali Giuseppe Flavio ricorda tre punti distintivi: l’interpretazione della Legge scritta applicata alla vita di ogni giorno; l’affermazione della libertà e della responsabilità umana in armonia con la volontà e l’agire sovrano di Dio, e la conseguente dottrina della retribuzione; la risurrezione dei corpi e la vita eterna per quanti fanno il bene.

Scheda biografica

Luca, negli Atti, redige una scheda biografica di Paolo[1]. Saul è un giudeo della diaspora; nato a Tarso[2] ma cresciuto a Gerusalemme, formato alla scuola di Gamaliele. Il primo contatto con la Bibbia avviene in casa e nella liturgia sinagogale; in seguito, nella scuola annessa alla sinagoga. Verso i 13-15 anni passa in una casa di studio (beth midrash), a Gerusalemme. Paolo fa parte della minoranza di Ebrei ellenisti di Gerusalemme, immigrati di ritorno, che accanto all’ebraico/aramaico conoscono anche il greco che dà accesso alla cultura internazionale.

Era consuetudine della famiglia ebraica insegnare un mestiere ai figli. Fin da piccolo Saulo, nella casa paterna e nella comunità ebraica di Tarso, ha imparato a tessere i cilici (ruvidi tessuti di peli di capra), per preparare piccoli tappeti o stuoie per uso domestico[3]. Questa attività, in seguito, gli permetterà di provvedere personalmente al proprio sostentamento, senza gravare sulle Chiese[4].

Da persecutore a perseguitato

Dall’esame critico delle fonti disponibili risulta: Paolo nell’ambiente dei Giudeo/ellenisti di Gerusalemme venne a conoscenza della comunità di coloro che si professavano discepoli di Gesù. Conosce, quindi, l’esistenza di una nuova fede (un nuovo cammino) che poneva al centro non tanto la Legge di Dio, quanto la Persona di Gesù crocifisso e risorto, a cui veniva collegata la remissione dei peccati. Come giudeo zelante, egli riteneva questo messaggio inaccettabile, anzi scandaloso. Perciò si fa promotore dell’azione repressiva contro quei Giudei dello stesso ambiente che hanno aderito al movimento cristiano. Dopo la fuga di questi da Gerusalemme egli tenta di perseguitarli in altre città, soprattutto nelle regioni della Siria, e a questo scopo ottiene lettere di presentazione per le autorità delle sinagoghe di Damasco. Contro i Giudei/cristiani dissidenti viene applicata la punizione prevista nella disciplina sinagogale, la fustigazione. A questa pena sinagogale sarà sottoposto anche Paolo cristiano, almeno tre volte[5].

La nuova realtà

Dagli Atti degli Apostoli, ma soprattutto dalle Lettere, rileviamo che il nuovo modo di essere di Paolo, la sua conversione per la quale si è sentito ghermito da Cristo[6], non è il risultato di uno sviluppo di pensieri, di riflessioni, ma è dovuta all’intervento gratuito di Dio che lo chiama, gli rivela il Vangelo di Gesù Cristo e ne fa un apostolo: apostolo per vocazione. Per lui si è verificato un netto cambiamento del centro di gravitazione: al posto della Legge, ora al centro sta Cristo. Da quel momento tutte le sue energie furono poste al servizio esclusivo di Gesù Cristo e del suo Vangelo. La sua esistenza sarà quella di un Apostolo desideroso di farsi tutto a tutti[7]. Testimonianza viva di questa passione per il Vangelo saranno i suoi viaggi apostolici durante i quali percorse circa 20.000 chilometri, affrontando ogni specie di difficoltà[8].

Le lettere di Paolo

Dopo la morte di Paolo (ca. 60 d. C.), le comunità cristiane da lui fondate, soprattutto nei centri di Corinto e di Efeso, si impegnarono a raccogliere e copiare le sue lettere. Da questo fatto alcuni discepoli di Paolo prendono lo spunto per riproporre, con altre lettere, il suo insegnamento alle nuove generazioni che non avevano conosciuto l’Apostolo. Nasce così un gruppo di lettere pseudoepigrafiche[9] che, insieme con quelle autentiche, formano l’epistolario paolino del canone cristiano[10]. L’inserimento delle lettere nel canone non è dovuto all’autore ma al contenuto dottrinale.

Premessa a Rm

Verso gli anni ’50 d. C. Paolo pensa concretamente ad estendere la sua missione evangelizzatrice verso Occidente[11]. Si propone come meta la Spagna. Nell’eventuale itinerario verso tale meta, Roma rappresenta una tappa intermedia. Dopo circa venti anni di attività missionaria, sollecitato a maturazione anche dalle difficoltà e dalle opposizioni incontrate sul cammino, Paolo si impegna a realizzare una presentazione articolata e organica del suo annuncio di Gesù Cristo ai pagani. Nasce Rm nella quale l’Apostolo parla del “mio vangelo”.

L’indirizzo alla chiesa di Roma non è determinato dal fatto che Paolo abbia posto i fondamenti di quella comunità cristiana che,  in realtà, non ha mai conosciuto. Egli sente di essere stato chiamato da Dio a svolgere il ministero di apostolo dei pagani; a questa categoria appartengono i convertiti che vivono a Roma. Inoltre Paolo desidera coinvolgere quella chiesa nel suo progetto di viaggiare verso la Spagna.

La lettera che Paolo scrive alla chiesa che è in Roma per predisporla ad un prossimo incontro e coinvolgerla nella prospettiva della missione in Spagna, a buon diritto può essere considerata come la sintesi più organica e completa di quello che egli chiama il mio vangelo. La lettera ai Romani diventa anche il testamento spirituale dell’Apostolo perché, in realtà, è il suo ultimo scritto autentico.

Contrariamente alle sue aspettative e speranze, Paolo raggiungerà Roma in qualità di prigioniero e sotto scorta militare per essere giudicato presso il tribunale dell’imperatore[12].

Da Rm si evidenzia anche la composizione dei cristiani ai quali Paolo indirizza la sua lettera. Di origine non strettamente apostolica, di impronta dottrinale giudeo/cristiana, suddivisi in gruppi diversi di fatto autonomi, organizzati in struttura non certamente clericale, fortemente orientati verso quella che si potrebbe chiamare l’ortoprassi della carità. Paolo richiama alla libertà dalla Legge derivante dalla sola fede.

 

L’identità specificata dal senso di appartenenza

 

Già dalla presentazione abbiamo potuto ricavare una lezione molto importante. La svolta decisiva nella vita di Paolo è rappresentata dall’incontro con il Risorto, verificatosi sulla via di Damasco. Anche per noi ciò che conta è porre al centro della propria vita Gesù Cristo: la nostra identità resta contrassegnata essenzialmente dall’incontro, dalla comunione con Cristo e con la sua Parola.  Alla sua luce ogni altro valore viene recuperato e purificato da eventuali scorie.

Alla centralità di Cristo Paolo fa corrispondere l’apertura all’universale, tipica della sua ansia apostolica. Dal primo momento egli aveva capito che la vita, passione, morte e risurrezione di Cristo non riguardavano solo i giudei o un  certo gruppo di uomini, ma avevano un valore universale, perché Dio, Padre del nostro Signore Gesù Cristo, è il Dio di tutti.

1.1     Gratuità dell’azione divina e responsabilità personale

 

«Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per vocazione, prescelto per annunziare il vangelo di Dio».  Seguendo lo stile epistolario dell’epoca, Paolo inizia il suo scritto presentandosi come mittente. Egli si considera douloV Cristou Iesou, schiavo di Cristo, perché «conquistato da Gesù Cristo»[13]. Dopo l’incontro con il Risorto Paolo ha coscienza di non appartenere più a se stesso perché conquistato, afferrato, ghermito da Gesù: questa è la prima certezza che stabilisce la sua nuova identità che risalta ancor più evidentemente se posta a raffronto con quanto dichiarato in Fil 3,5-6. Paolo è un alienato, nel senso originale del termine, un espropriato, cioè appartenente ad un altro. Perché afferrato, egli ha lasciato tutto per Cristo arrivando a considerare spazzatura ciò che prima era per lui un guadagno[14]. Con ciò Paolo mette bene in luce un dato fondamentale, diventato irrinunciabile: egli ha ormai legato la sua vita a qualcuno che ritiene suo esclusivo signore; non appartiene più a se stesso. Lo status di schiavo secondo il diritto romano vigente al tempo di Paolo, indica che l’individuo in questione non solo non ha alcuna proprietà, ma egli stesso è proprietà, totalmente vincolato ad un padrone che ne dispone come vuole: lo schiavo non ha personalità giuridica.  Con questo Paolo radicalizza i riferimenti biblici[15] trasferendo la nozione sociale di schiavo a livello soprannaturale. Con il salmista può affermare con tutta coerenza: «Sei tu il mio Signore, senza di te non ho alcun bene»[16].

Il secondo titolo che amplifica la coscienza della propria identità deriva dal sentirsi chiamato per essere apostolo: klhtoV apostoloV. La situazione di schiavo non è statica ma dinamica: Cristo lo ha comprato a caro prezzo per mandarlo. Se il primo titolo derivava da un’acquisizione, il secondo è fondato solo su di una richiesta, un invito, una convocazione, una scelta. Con ciò Paolo vuole, soprattutto, affermare che la sua qualifica di apostolo non è dovuta ad una investitura umana, ma ad un gratuito atto della volontà di Dio per la mediazione del Cristo risorto[17].

Il titolo di apostolo viene ulteriormente specificato dall’apposizione : messo a parte per l’evangelo di Dio, afwrismenoV eiV euaggelion Qeou. Viene così esplicitata la funzione propria dell’apostolo; egli è messo a parte, è separato per evangelizzare. È evidente il richiamo ad Isaia e Geremia: «Fin dal grembo di mia madre mi ha chiamato per nome […]. Mi disse: Mio servo tu sei, Israele […]; ecco ti ho posto come alleanza delle genti perché tu porti la salvezza fino all’estremità della terra»[18]. «Prima di formarti nel grembo materno ti conoscevo, e prima che uscissi dall’utero ti ho consacrato, ti ho stabilito profeta per le genti»[19]. La chiamata è avvenuta in vista di un compito ben preciso: l’annuncio dell’evangelo. Ma l’espressione sta ad indicare anche che Dio, prima di affidare a Paolo l’annuncio del vangelo, lo ha consegnato ad esso, tanto che l’evangelo diventa la ragione di vita dell’apostolo, quasi il suo proprietario[20]. Il buon annuncio della redenzione in Cristo non ha un’origine umana, ma dipende dalla magnanima gratuità di Dio a cui vanno ricondotti anche i frutti della predicazione[21].

Prima della conversione Paolo non era stato un uomo lontano da Dio e dalla sua Legge. Al contrario, era un fedele osservante, tanto da spingere l’osservanza fino al fanatismo. Nella luce dell’incontro con Cristo capì che, con questo, aveva cercato di costruire se stesso, la sua propria giustizia. Dopo la conversione Paolo non vive più per se stesso, per la propria giustizia. Vive di Cristo e con Cristo, dando se stesso, non più cercando e costruendo se stesso. È questo l’orientamento che il Signore vuole imprimere anche alle nostre vite: davanti alla croce di Cristo, espressione estrema della sua auto donazione, nessuno può vantare se stesso, la propria giustizia fatta da sé e per sé.

All’azione gratuita di Dio l’Apostolo risponde con totale disponibilità a conoscere e attuare la volontà di Cristo che egli perseguitava: «Alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare»[22]. Era venuto a Damasco con l’intento di perseguitare i cristiani ed ora abbandona i suoi propositi e non cerca altro che conoscere la volontà di Gesù. La rivelazione di Cristo Risorto scaraventa a terra la sua vita e le sue vecchie convinzioni.  Ne deriva una limpida consapevolezza della propria identità espressa con estrema coerenza nell’affermazione: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me»[23]. Il dialogo che si sviluppa tra la libera iniziativa di Dio e la piena adesione di Paolo fonda l’identità dell’Apostolo che si riconosce schiavo di Cristo Gesù, apostolo per vocazione, messo a parte per il vangelo di Dio e ad esso affidato.

Il primo gesto personale di Paolo, fariseo esperto nella Torah, risulta dalla conclusione delle sue riflessioni: Gesù Cristo è il compimento delle Scritture. Difatti la buona notizia della storia della salvezza era stata preparata «per mezzo dei profeti nelle sacre Scritture»[24]. L’identità si fa sempre più chiara. La centralità di Cristo motiva anche la vocazione all’apostolato e la conseguente azione missionaria: «per mezzo di lui abbiamo ottenuto la grazia dell’apostolato per ottenere l’obbedienza alla fede»[25].

Per proseguire nella riflessione applicando alla nostra realtà la vicenda spirituale di Paolo, partiamo dalla convinzione che «tutta la Scrittura è ispirata da Dio ed è utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia»[26].  Nelle poche righe del proemio di Rm Dio rivela se stesso mentre, nel contempo, chiarisce la nostra posizione: Dio, con la sua azione libera e gratuita, fonda la nostra identità di cristiani e di consacrati. Come si è verificato per Paolo, però, anche la nostra identità raggiungerà la sua piena realizzazione se avremo fatto di Cristo il centro della nostra vita. La prima conclusione sarà un costante atteggiamento di umiltà di fronte a Dio, di adorazione e di lode nei suoi confronti. Infatti, ciò che noi siamo, lo dobbiamo solo a Lui. La nostra radicale appartenenza a Cristo e il fatto che noi «siamo in Lui» deve indurci ad impegnarci perché nessun idolo debba contaminare il nostro universo spirituale.

1.2     Se uno è in Cristo è una creatura nuova (2Cor 5,17)

 

Anche la nostra identità di cristiani ha come movente la libera iniziativa di Dio che, nel Battesimo, ci fa rinascere come nuove creature. Per i singoli cristiani si verifica quello che l’autore della lettera agli Efesini afferma della Chiesa: «Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata»[27]. Cristo ha amato la persona e l’ha incorporata a sé mediante il Battesimo. Il rito è amministrato dall’uomo ma l’effetto della rinascita è ottenuto dal lavacro reso potentemente efficace dalla Parola. Per l’immersione (baptizein) nella vita, passione, morte e risurrezione di Cristo viene superata positivamente l’antitesi peccato/libertà. È quanto san Paolo esprime con particolare energia nella nostra Lettera: «O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del Battesimo siamo stati dunque sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova»[28]. Immersi in Cristo Gesù, nella sua morte! Nel sacramento del Battesimo la morte e risurrezione di Gesù non esprimono solo un simbolo di novità ma sono l’ambiente vitale che dà origine alla nuova creatura, ad un nuovo modo di essere della persona umana inserita oramai nell’atmosfera divina della vita eterna. Per indicare questa intima unità che lega profondamente il battezzato a Cristo morto e risorto, Paolo usa dei neologismi  costruiti mediante la preposizione “con”: «con/sepolti con lui nel battesimo (suntafenteV autw en tw baptismati), in lui anche con/risorti (en w kai sunhrgeϑhte), con/vivificati con lui (sunezwopoihsen)[29]. La vita nuova che il battezzato riceve è frutto dell’infinito amore gratuito di Dio in Cristo Gesù. Questa vita, che è eterna, ci innesta nel secondo Adamo conferendoci la figliolanza adottiva di Dio[30]. Riecheggia qui la domanda che Benedetto XVI pone nella sua seconda Enciclica: «La vita eterna – che cos’è?»[31]. Dopo alcune riflessioni sulle impressioni che ora può suscitare questa realtà, il Papa, facendo proprie le osservazioni di sant’Agostino, prosegue: «Possiamo soltanto cercare di uscire col nostro pensiero dalla temporalità della quale siamo prigionieri e in qualche modo presagire che l’eternità non sia un continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità. Sarebbe il momento dell’ immergersi nell’oceano dell’infinito amore nel quale il tempo - il prima e il dopo - non esiste più. Possiamo soltanto cercare di pensare che questo momento è la vita in senso pieno, un sempre nuovo immergersi nella vastità dell’essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia»[32].

Come quella di san Paolo, anche la nostra identità di cristiani è dunque delineata dalla centralità di Cristo che non può essere solo declamata ma vissuta. Difatti la nuova vita del battezzato esige una profonda dirittura morale perché si tratta della stessa vita di Dio e di Cristo: «Chi dice di dimorare in lui, deve comportarsi come lui si è comportato»[33]. Qui si innesta la nostra specifica identità di persone consacrate, chiamate ad esprimere una particolare obbedienza alla fede[34] che porta a riprodurre, qui ed ora, l’originale stile di vita che fu proprio di Cristo e della sua santissima Madre. Impegno questo che, per una personale manifestazione dell’amore gratuito di Dio, ci pone di fronte ai fratelli e alle sorelle, «amati da Dio e santi per vocazione»[35], come richiamo alla comune vocazione alla santità. Anche questa nostra identità, per la quale vogliamo comportarci “come lui si è comportato,, parte da Cristo, unico centro unificatore della nostra vita.

La conformazione a Cristo povero, casto e obbediente si sviluppa in una pura atmosfera di fede che ci fa «rimanere saldi come se vedessimo l’invisibile»[36] e che ci sprona a libertà da tutti i condizionamenti umani. «Questa nuova libertà si è mostrata soprattutto nelle grandi rinunce a partire dai monaci dell’antichità fino a Francesco d’Assisi e alle persone del nostro tempo che, nei moderni Istituti e Movimenti religiosi, per amore di Cristo hanno lasciato tutto per portare agli uomini la fede e l’amore di Cristo, per aiutare le persone sofferenti nel corpo e nell’anima. Lì la nuova sostanza si è comprovata realmente come sostanza; dalla speranza di queste persone toccate da Cristo è scaturita speranza per altri che vivevano nel buio e senza speranza. Lì si è dimostrato che questa nuova vita possiede veramente sostanza ed è una sostanza che suscita vita per altri»[37]. La buona notizia, il vangelo di Dio[38], allora, è la stessa Persona di Cristo Redentore da presentare a tutti coloro che sono amati da Dio e  santi per vocazione. Difatti la conformazione a Cristo non richiede solo che ci si comporti come lui si è comportato ma esige anche che si partecipi a tutti la salvezza ricevuta dalla vita, passione, morte e risurrezione di Gesù: «È proprio dell’uomo il desiderio di rendere partecipi gli altri dei propri beni. L’accoglienza della Buona Novella nella fede, spinge di per sé a tale comunicazione»[39]. Esigenza che può essere compresa e attuata da un cuore amante: «Evangelizzare significa non soltanto insegnare una dottrina, bensì annunciare il Signore Gesù con parole ed azioni, cioè farsi strumento della sua presenza e azione nel mondo»[40]. Una presenza che, per mezzo della persona consacrata, diventa provocazione soprattutto per le persone che vivono ignorando Cristo e le sue esigenze di vita.

Spinto da questa ansia evangelizzatrice san Paolo può scrivere: «Io non mi vergogno del  vangelo, poiché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco»[41]. L’Apostolo non si vergogna dell’evangelo considerato come annuncio perché non si vergogna di Cristo, oggetto dell’annuncio[42].

La nostra identità di cristiani/consacrati suggerisce, quindi, una vita intrisa di fede, centrata sulla Persona di Cristo che chiede di essere conosciuto, amato e annunciato. Il cristiano/consacrato si riconosce, come Paolo, servo di Cristo Gesù,

                                                                      apostolo per vocazione,

                                                                      messo a parte per annunciare il vangelo di Dio[43] .

 

II

 

L’idolatria e la conseguente perdita di identità

 

L’identificazione con Cristo operata attraverso il Battesimo, l’assunzione della sua mentalità da realizzare mediante un coraggioso programma di vita, rappresentano un ideale a cui tendere intrecciando giorno per giorno contemplazione e impegno operativo.

Ma la nostra debolezza naturale ci spinge a perdere di vista l’ideale inducendoci a rannicchiarci su noi stessi con un graduale processo di autocompiacimento. All'uomo di oggi capita talvolta che le opere della creazione, e più ancora quelle delle sue mani, invece di aiutarlo in questa ascesa verso il Creatore, lo inceppino e lo inducano ad un atteggiamento che lo lega esclusivamente ai beni della terra, facendogli dimenticare Dio: "Viviamo come se Dio non esistesse". È il peccato[44], le cui implicanze esistenziali, sono state evidenziate dal Concilio Ecumenico Vaticano II: «Stando così le cose, il mondo si presenta oggi potente e debole, capace di operare il meglio e il peggio, mentre gli si apre dinanzi la strada della libertà o della schiavitù, del progresso o del regresso, della fraternità o dell'odio. Inoltre, l'uomo si rende conto che dipende da lui orientare bene le forze da lui stesso suscitate e che possono schiacciarlo o servirgli»[45].

Nel kerigma iniziale il tema del peccato non sta in primo piano. Nell’antica formulazione della fede[46] l’accenno ai peccati è messo in seconda battuta, in funzione del fatto che Cristo è morto per questo.

San Paolo in Rm cita 42 volte il termine amartia, solo tre volte al plurale. Etimologicamente il termine significa sbaglio, errore, bersaglio mancato. Per Paolo il peccato è un dato di partenza in cui l’uomo si trova, a prescindere dal pullulare dei singoli atti peccaminosi.

La reazione più adeguata è l’umiltà, la coscienza del proprio limite, anche morale, di fronte a Dio tre volte santo[47] .

Nella nostra Lettera, con tinte molto forti, san Paolo dipinge un quadro attraversato da un’affermazione incontestabile: «Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio»[48]. L’espressione viene enfatizzata da Giovanni che dichiara: «Se diciamo che siamo senza peccato inganniamo noi stessi e la verità non è in noi»[49].

2.1     Il vitello d’oro

Prima di introdurci più esplicitamente nella nostra lettura, consideriamo l’esperienza che ha condotto Paolo a tematizzare l’argomento del peccato.

Il pensiero di Paolo sul peccato è pervaso dal senso della rivelazione di Dio in Cristo. È il giudizio divino, colto nella rivelazione, sull’uomo senza Dio, giudizio che appare in tutta la sua severa realtà sulla croce di Cristo.

L’idea e la concezione del peccato in Paolo sono determinate dall’esperienza da lui vissuta. La sua coscienza di Giudeo gli faceva affermare di essere irreprensibile secondo la giustizia della Legge[50]. Ma l’evento sulla via di Damasco gli fa capire di essere «il più piccolo degli apostoli, non degno di essere chiamato apostolo perché persecutore della chiesa di Dio»[51]. La persecuzione contro i cristiani non era che l’estrema conseguenza del suo intento di conseguire la salvezza raggiungendo da sé la giustizia mediante le opere della Legge, ossia col suo zelo per la Legge stessa.

Quando gli si aprirono gli occhi comprese che il suo agire nell’ambito del giudaismo altro non era che resistere alla Volontà di Dio. Il voler disporre di se stesso, caratteristica propria dell’uomo, è resistenza alla Volontà di Dio.

Paolo intuisce che il peccato non è solo offesa alla maestà divina, ma anche ostile resistenza alla volontà di Dio, resistenza dell’uomo che vuole vivere per se stesso e disporre di se stesso. L’idea di ostilità a Dio è divenuta l’elemento costitutivo del concetto paolino di peccato. In Rm 5-8 Paolo sviluppa tutta la sua teologia sul peccato e sulla redenzione realizzata da Cristo. L’idea maturata in seguito all’esperienza lo porta a parlare di peccato, al singolare, più che di atti peccaminosi. Con questo ci disponiamo ad accogliere, ora, il messaggio di Paolo.

«Chiamati alla salvezza mediante la fede in Gesù Cristo, "luce vera che illumina ogni uomo"[52], gli uomini diventano "luce nel Signore" e "figli della luce"[53] e si santificano con "l'obbedienza alla verità"[54]. Questa obbedienza non è sempre facile. In seguito a quel misterioso peccato d'origine, commesso per istigazione di Satana, che è "menzognero e padre della menzogna"[55], l'uomo è permanentemente tentato di distogliere il suo sguardo dal Dio vivo e vero per volgerlo agli idoli[56], cambiando "la verità di Dio con la menzogna"[57]; viene allora offuscata anche la sua capacità di conoscere la verità e indebolita la sua volontà di sottomettersi ad essa. E così, abbandonandosi al relativismo e allo scetticismo[58], egli va alla ricerca di una illusoria libertà al di fuori della stessa verità»[59].

L’impegno a mettere se stessi al centro al posto di Cristo evidenzia, per contrasto, la giustizia punitiva di Dio indicata dall’espressione ira di Dio - orgh tou Qeou.  Qui entra in gioco lo schema dell’Alleanza tra Dio e Israele, secondo cui il Signore si aspetta dal suo popolo che esso osservi la sua Legge, specialmente il primo dei comandamenti e si adira quando ciò non avviene[60]. In questo contesto l’ira è semplicemente un aspetto della gelosia del Signore che non tollera il passaggio del suo popolo ad altri déi. L’intero Libro dei Giudici è comandato da questo schema: (1) Israele fa ciò che è male agli occhi del Signore; (2) l’ira del Signore si accende contro di lui e lo mette nelle mani dei suoi nemici; (3) gli israeliti pregano il Signore (4) che suscita per loro un liberatore.

Il punto di partenza, nella esposizione di Paolo, sta nell’affermazione che Dio si manifesta con sufficiente chiarezza nel creato e, perciò, offre all’uomo la possibilità di trascendersi, per incontrarlo.

Può l'uomo accettare come verità l'esistenza di un Dio invisibile? E' una questione sempre attuale, che acquista una particolare intensità nei periodi in cui l'ateismo diventa il programma della vita pubblica, dell'educazione, dei mezzi di comunicazione. Allora l'uomo deve nuovamente e ancor più profondamente riflettere sulla questione dell'esistenza di Dio. Deve ancora una volta rifare il cammino razionale di cui parla san Paolo scrivendo ai Romani. L'uomo può giungere a conoscere l'invisibile Creatore contemplando la creazione visibile. Il libro della Sapienza nell'Antico Testamento annuncia la stessa verità, rimproverando gli uomini che «dai beni visibili non riconobbero colui che è, non riconobbero l'artefice, pur considerandone le opere»[61].

In che cosa consiste la giustizia punitiva di Dio, la sua ira? Nel lasciare l’uomo in balia di se stesso e della sua mente ottenebrata: «Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili. Perciò Dio li ha abbandonati a passioni infami»[62]. La natura, ferita nella propria identità, si vendica dell’uomo facendogli perdere il senso della sua stessa identità naturale.

L’esaltazione idolatrica del proprio “IO” in sostituzione di Dio, anche se non nella forma virulenta descritta dall’Apostolo, non risparmia neppure le persone invitate a fare della propria vita un olocausto di amore per la gloria di Dio e per il bene dei fratelli. A loro san Paolo potrebbe rivolgere il rimprovero indirizzato ai Giudei: «Sei dunque inescusabile, chiunque tu sia, o uomo che giudichi: perché mentre giudichi  gli altri, condanni te stesso; infatti, tu che giudichi, fai le medesime cose»[63].

Per noi la conoscenza e l’adorazione di Dio parte dalla contemplazione di Cristo, e di Cristo Crocifisso. «Dio, che "abita una luce inaccessibile"[64], parla nello stesso tempo all'uomo col linguaggio di tutto il cosmo: "Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità"[65]. Questa indiretta e imperfetta conoscenza, opera dell'intelletto che cerca Dio per mezzo delle creature attraverso il mondo visibile, non è ancora "visione del Padre". "Dio nessuno l'ha mai visto", scrive san Giovanni per dar maggior rilievo alla verità, secondo cui "proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato"[66]. Questa "rivelazione" manifesta Dio nell'insondabile mistero del suo essere - uno e trino - circondato di "luce inaccessibile"[67]. Mediante questa "rivelazione" di Cristo, tuttavia, conosciamo Dio innanzitutto nel suo rapporto di amore verso l'uomo: nella sua "filantropia"[68]. È proprio qui che "le sue perfezioni invisibili" diventano in modo particolare "visibili", incomparabilmente più visibili che attraverso tutte le altre "opere da lui compiute": esse diventano visibili in Cristo e per mezzo di Cristo, per il tramite delle sue azioni e parole e, infine, mediante la sua morte in croce e la sua risurrezione»[69].

Molteplici sono i motivi per cui anche la mente delle persone religiose può essere ottenebrata per cui stentano ad accogliere la rivelazione di Dio in Gesù Cristo.

La presunzione di essere migliori degli altri a causa di uno status particolare. La cieca fiducia posta nella materialità delle osservanze e delle opere di pietà.  Ne deriva quasi un contratto di dare e avere. Ma il nostro stato di persone consacrate non è una polizza assicurativa che ci esonera dalla vigilanza e dall’impegno. «Se tu ti vanti di portare il nome di Giudeo e ti riposi sicuro nella Legge, e ti glori di Dio, del quale conosci la volontà e, istruito come sei nella Legge, sai discernere ciò che è meglio […], come mai tu che insegni agli altri , non insegni a te stesso?»[70]. Non sarà lo status a salvare, ma l’adesione del cuore: «Giudeo  è colui che lo è interiormente, e la circoncisione è quella del cuore, nello spirito e non nella lettera»[71].

La sfida nei confronti della longanimità e della misericordia di Dio rivelata, in modo speciale, nel mistero pasquale. Ciò che dovrebbe essere motivo di avvicinamento a Dio e al suo piano di salvezza, diventa occasione di allontanamento e di falsa fiducia. «Ti prendi gioco della ricchezza della sua bontà, della sua tolleranza e della sua pazienza, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione?»[72]. A queste parole fa eco Pietro, quasi a commento del pensiero di Paolo: «La magnanimità del Signore nostro giudicatela come salvezza, come anche il nostro carissimo fratello Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data»[73]. La conclusione a cui arriva  Paolo è chiara: «Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio»[74]. Da tale consapevolezza dovrebbe scaturire l’impegno serio ad uscire dalla situazione di peccato per inoltrarci in un vero cammino di conversione: «Non dire: “la sua misericordia è grande; mi perdonerà i molti peccati”. […]. Non aspettare a convertirti al Signore e non rimandare di giorno in giorno»[75].

L’anoressia spirituale. È l’atteggiamento di chi conduce una vita stanca, tiepida, senza entusiasmo, triste. Nei confronti di costoro, per bocca di Giovanni, il Signore si dice nauseato: «Tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo. Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca»[76].

Come rimedio, san Paolo esorta: «Non siate pigri nello zelo; siate invece ferventi nello spirito, servite il Signore. Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell’ospitalità»[77].

Con il peccato, che ci allontana da Dio per spingerci verso l’idolatria, perdiamo di vista la nostra vera identità che viene ridotta ad un dato anagrafico e giuridico.

2.2     Giustificati gratuitamente (Rm 3,24)

All’azione gratuita di Dio che ci chiama per renderci servi di Cristo, apostoli per vocazione, messi a parte per annunciare il vangelo di Dio, segue quella di giustificarci gratuitamente, liberandoci dalla schiavitù del peccato.

Rispetto all’argomento precedente Paolo, ricco dell’esperienza personale, rifiuta l’idea di una giustizia retributiva proporzionata alle opere umane. Rifiuta anche l’idea che tale giustizia privilegi gli Ebrei a scapito dei “Gentili”. Dio è sempre fedele alle sue promesse, nonostante le numerose infedeltà degli uomini. Ora esprime la sua fedeltà nella giustizia salvifica usata verso tutti i credenti; giustizia che non è posta in relazione con le opere dell’uomo, ma con la morte di Cristo. Alla nuova forma della giustizia di Dio l’uomo risponde con la fede: «Noi riteniamo che l’uomo viene giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge»[78]. «L’uomo non è giustificato dalle opere della Legge, ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo; perciò abbiamo creduto anche noi in Gesù Cristo per essere giustificati dalla fede in Cristo e non dalle opere della Legge, poiché dalle opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno»[79]. Essere giustificati significa essere resi giusti, essere accolti dalla giustizia misericordiosa di Dio ed entrare in comunione con Lui e, di conseguenza, poter stabilire un rapporto più autentico con tutti i nostri fratelli: e questo sulla base di un totale perdono dei nostri peccati. Paolo afferma con estrema chiarezza che questa condizione di vita non dipende dalle nostre eventuali opere buone, ma da una pura grazia di Dio che l’uomo è invitato ad accogliere, nella fede, con gratitudine..

Questi concetti, ancora una volta, mettono in luce la paterna misericordia di Dio che vuole la salvezza di tutti gli uomini. Rispetto ai nostri paradigmi, il modo con cui Dio esercita la giustizia travalica ogni immaginazione. Invece di condannare coloro che hanno peccato, cioè tutti, Dio giustifica. La giustificazione è dovuta unicamente alla Persona e all’opera di Gesù Cristo. Si attualizza la profezia di Isaia: «Sarete riscattati senza denaro»[80]. Per la sua giustificazione il peccatore non dovrà pagare alcun riscatto, come Israele non dovette sborsare alcun prezzo per il suo ritorno dall’esilio[81]. La giustificazione, infatti, è dovuta solo all’amore di quel Padre che «ha tanto amato il mondo da consegnare il suo Figlio unigenito»[82]. Con questo, «il Figlio stesso di Dio si è unito in certo qual modo ad ogni uomo. […]. Nascendo da Maria Vergine, Egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato»[83].

Ci troviamo di fronte al mistero di iniquità riscattato dal mistero di misericordia e di perdono. «L’amore è più grande del peccato, della debolezza, più forte della morte; è amore sempre pronto a sollevare e a perdonare, sempre pronto ad andare incontro al figlio prodigo, sempre alla ricerca della rivelazione dei figli di Dio che sono chiamati alla gloria futura[84]. Questa rivelazione dell’amore viene anche definita misericordia, e tale rivelazione dell’amore e della misericordia ha nella storia dell’uomo una forma e un nome: si chiama Gesù Cristo»[85].

In precedenza abbiamo notato il modo di pensare di Paolo rispetto al peccato; consideriamo ora la sua posizione nei confronti della giustificazione. Questa, per Paolo, è essenzialmente restaurazione della dignità dell’uomo, in quanto restaurazione dei rapporti con Dio[86]. Non si può parlare di salvezza, in senso cristiano, se non si parte dalla croce di Cristo.

In Paolo manca, di fatto, la salvezza soteriologica data in vista del pentimento. Il cristiano è confrontato con la croce di Cristo; solo questa è l’origine della salvezza. Non è il mio semplice chiedere perdono a Dio che ha valore salvifico. Al contrario, io mi trovo confrontato con un evento, che è la croce di Cristo. Là è decisa la mia salvezza. Il discorso sul pentimento è sostituito dal discorso riguardante la fede, e cioè riguardante l’accettazione della croce e del sangue di Cristo in quanto mi interessano, perché sono avvenuti per me.

L’essenza dell’intervento salvifico di Dio in Cristo, è il dono di sé, un atto supremo di amore: il dono di sé invece di un atto di potenza. Da parte della persona redenta l’essenza della redenzione consiste nella comunione di amore che parte da quel dono e spinge a donarsi, instaurando un rapporto di figliolanza[87]. La redenzione dai peccati, voluta da Dio e realizzata da Gesù Cristo, è un gesto gratuito dell’amore preveniente (per la sua grazia), del Padre.

Il fine del meraviglioso piano di Dio è quello di manifestare la sua giustizia[88], cioè la sua incrollabile fedeltà alle promesse salvifiche; e questo avviene con il condono definitivo dei peccati commessi. In tal modo Egli si manifesta non solo giusto, cioè santo e fedele alle promesse, ma anche operante la giustificazione in chi ha fede in Gesù Cristo: Egli partecipa la sua stessa santità e giustizia ai credenti, facendoli membri della sua famiglia, rinnovandoli interiormente con la sua grazia.

La giustificazione non è tanto il risultato di un processo giudiziario assolutorio, quanto piuttosto un gesto di perdono e di accoglienza da parte di Dio: mantenendo fede alle sue promesse, Dio salva l’uomo facendolo partecipe della sua santità, della sua giustizia. L’intervento salvifico di Dio è del tutto gratuito. Ciò appare con lampante chiarezza quando Paolo scrive: «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato»[89]. L’amore di Dio, che è Dio stesso, è incontenibile e, allo stesso modo di un liquido che fuoriesce da un vaso troppo pieno, trabocca nei nostri cuori, nel più intimo del nostro essere, trasformandoci radicalmente per la potenza dello Spirito Santo, altro dono inatteso della infinita, viscerale misericordia di Dio.

In qual modo, storicamente, si è manifestato questo meraviglioso intervento di Dio a vantaggio dei peccatori? La risposta di Paolo lascia ulteriormente perplessi: «mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito»[90]. Dio non ha aspettato che noi dessimo segni di pentimento, che lasciassimo il peccato, ma ha consegnato il Figlio alla morte mentre eravamo ancora peccatori. Proprio in questa decisione divina antecedente qualsiasi nostra iniziativa sta la manifestazione del traboccante amore di Dio: «Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi»[91]. E “noi” siamo quegli “empi” di cui Paolo ha parlato prima: uper asebwn apeϑanen;  uper hmwn apeϑanen. La giustificazione del peccatore, in quanto amoroso intervento gratuito, è azione corale, potremmo dire, della SS. Trinità: l’amore di Dio trabocca abbondantemente nei nostri cuori per la potenza dello Spirito Santo e si manifesta nella morte sacrificale di Cristo, antecedente perfino il nostro pentimento. Anzi, dobbiamo affermare che lo stesso pentimento è frutto del gratuito intervento della Trinità. A noi, che avevamo rinunciato a mantenere integra la nostra identità di figli[92] Dio risponde con la sua sovrabbondante grazia: «Laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia, perché come il peccato aveva regnato con la morte, così regni anche la grazia con la giustizia per la vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore»[93].

 

III

 

Rinati in Cristo per la potenza dello Spirito Santo

 

Dio manifesta storicamente il suo incontenibile amore nell’incessante riannodare i legami che Egli ha stretto con l’uomo, sino a raggiungere la massima espressione in Cristo consegnato alla morte per i peccatori. Lo abbiamo visto guidati dal pensiero di Paolo: l’intervento gratuito di Dio rivela la vera identità della persona umana continuamente offuscata dalla presenza del peccato, dal ripiegamento dell’uomo su se stesso. Ma l’amore di Dio prevale e la vita rifiorisce là dove l’uomo aveva scelto la morte. Il presupposto e il ripristino della identità dell’uomo è dono gratuito di Dio, non valutabile secondo le categorie del merito ma secondo quelle della gratuità munifica da parte di Dio.

Queste riflessioni, e le conseguenti convinzioni che ne scaturiscono, potrebbero indurre nella tentazione dell’inerzia o, peggio, del lassismo. Con ragione, quindi, san Paolo pone l’interrogativo retorico: «Continuiamo a restare nel peccato perché abbondi la grazia?». La risposta è perentoria: «È assurdo»[94]. All’intervento amoroso di Dio il credente offre la sua risposta che procede ugualmente dall’amore: affascinato dalla bontà misericordiosa del Padre, si impegna a collaborare con Dio entrando nel vivo del dialogo che ha come protagonisti la SS. Trinità e l’uomo. In Rm 5,12-21 il processo liberatorio era considerato dall’angolatura dell’efficace azione di Cristo Liberatore; in 6,1-23 viene valutato dal punto di vista della partecipazione del credente: alla redenzione oggettiva corrisponde la redenzione soggettiva.

Ma l’uomo, nell’impostare la sua risposta, ha un chiaro Modello a cui ispirarsi: Gesù Cristo contemplato nel suo mistero pasquale.

3.1     Procedere in novità di vita

La coscienza del proprio peccato non può lasciare l’uomo nel torpore dell’inerzia. Nella storia della salvezza il Verbo ha compiuto il primo passo unendosi in qualche modo ad ogni uomo perché tutti potessimo incorporarci a Lui partecipando attivamente alla sua vicenda di morte e risurrezione. La nostra unione profonda con Cristo, da realizzare ogni giorno partecipando al suo mistero pasquale, è messa in risalto da Paolo, anche in Rm, attraverso la particella sun=con. Siamo con/simili a lui (sumfutoi) nella morte per esserlo anche nella risurrezione. Difatti la nostra primitiva realtà è stata con/crocifissa con lui (sunestaurwϑh) perché, morti al peccato, possiamo con/vivere con lui (suzhsomen autw)[95].

L’elemento da cui prendere le distanze, a cui morire, è il Peccato, questa sottile e subdola potenza di egoismo che ci mantiene chiusi in noi stessi facendoci allontanare sempre più da Dio. Il passaggio dalla morte alla vita, dalla schiavitù del peccato alla libertà dei figli di Dio si è attuata nel battesimo, quando «siamo stati sepolti insieme a lui nella morte perché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi potessimo camminare in una vita nuova»[96].

Cristo è senza peccato; ma Egli ha assunto la nostra umanità ferita dal peccato e, con la sua morte, ha distrutto il peccato nella sua carne: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio»[97]. Tutte queste riflessioni portano ad una conclusione di fede: «Se, quindi, siamo morti con Cristo, crediamo anche che vivremo con lui»[98].

La liberazione dal Peccato per mezzo della morte e risurrezione di Cristo non è, però, una realtà che ci cade addosso senza che, da parte nostra, ci sia una partecipazione responsabile. È necessario che la persona umana partecipi al processo di liberazione dando un orientamento radicalmente diverso al proprio mondo relazionale. Concetto espresso da Paolo partendo dalla categoria di swma=corpo. Per la sua costituzione psicofisica, l’uomo è un essere relazionale. La sua struttura di base è il rapporto che egli istituisce verso il Creatore, gli altri, il mondo. La sua realtà umana si costruisce o si demolisce a seconda delle relazioni che intesse: autentiche o alienanti. Potrà accettare la vita che gli viene offerta se si aprirà all’amore; rifiuterà la vita, preferendo restare nella morte, quando si sarà chiuso nell’adorazione del proprio io. La partecipazione dell’uomo al processo di liberazione dal peccato consiste nel prendere posizione: «Non regni più dunque il peccato nel vostro corpo mortale, sì da sottomettervi ai suoi desideri; non offrite le vostre membra come strumenti di ingiustizia al peccato, ma offrite voi stessi a Dio come vivi tornati dai morti e le vostre membra come strumenti di giustizia per Dio»[99].

L’intervento gratuito ed efficace del Dio di Gesù Cristo cambia il volto dell’esistenza dell’uomo. Voler rimanere soggetti al peccato contraddice l’essere cristiano. Tutto ciò è effetto del battesimo che rappresenta l’inizio di un cammino di esistenza libera, al modo dei risuscitati. Chi, nel battesimo, ha sperimentato la morte, è liberato dal dominio del Peccato, perché appartiene oramai a Cristo. In conclusione: i cristiani non sono più campo di dominio da parte del Peccato ma vivono una vita nuova di dedizione a Dio. E questo per solidarietà con il destino di morte e risurrezione di Cristo, cioè in virtù di un evento liberatore di grazia che ha luogo nel battesimo e si compie in forza della fede.

Si capisce l’espressione meravigliata e adorante di Giovanni che esclama: «Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente»[100]. Una figliolanza destinata ad esprimersi nella pienezza quando «saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è»[101]. Ma anche per Giovanni la prima condizione per manifestare la propria realtà di figli di Dio, consiste nel rinunciare al peccato: «Chiunque è nato da Dio non commette peccato, perché un germe divino dimora in lui, e non può peccare perché è nato da Dio»[102]. I credenti sono chiamati a costruire una vita a misura del nuovo mondo dei risorti perché, per grazia,  ne è stata loro offerta la possibilità.

3.2     Il conflitto interiore

La rinascita spirituale, come ogni nascita, è accompagnata dalla sofferenza, non soltanto perché è costata la morte ignominiosa di Gesù. Paolo esprime in termini drammatici la fluttuazione dell’IO tra il desiderio positivo e la pratica negativa: «Non capisco ciò che faccio: non quello che voglio ma quello che odio di fatto compio. […] So in effetti che il bene non abita in me, cioè nel mio essere carnale: volere il bene è a mia portata, ma non il compierlo»[103].

Descrivendo la situazione psicologica e spirituale dell’uomo, l‘Apostolo  ci induce a prendere coscienza di quella che egli, in altri contesti, chiama mistero di iniquità[104], cioè l’aspetto oscuro e inafferrabile che si cela nel peccato. Si tratta di un dramma che percepiscono tutte le persone che vogliono aderire a Dio con tutte le forze del loro essere. Un dramma non avvertito abitualmente da chi vive in superficie il suo rapporto con Dio, lasciandosi guidare unicamente dalle proprie sensazioni. Questo modo di vivere superficialmente la vita spirituale può ingenerare nella persona consacrata l’illusione di stare a posto, mentre mescola pratiche di pietà, lavoro apostolico, inerzia spirituale e reazioni incontrollate. «È bene per noi renderci conto di tali imperfezioni e vedere che ci manca ancora molto per arrivare a vivere la virtù. Chiediamola a Dio e cerchiamo di praticarla perché, pensando di possederla già, non la pratichiamo e ci illudiamo, e ciò è ancora peggio»[105]. Le persone che vogliono seguire Cristo più da vicino sentono che non hanno ancora raggiunto la meta prefissa: «… E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti. Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo»[106].

L’impegno a conoscere sempre meglio se stessi e a mettere in atto tutti i mezzi per dare slancio alla propria vita spirituale è tanto più necessario in quanto è estremamente difficile delineare con chiarezza i confini tra debolezza e peccato. «Questo, senza dubbio, è opera della libertà dell’uomo; ma dentro il suo stesso spessore umano agiscono fattori, per i quali esso si situa al di là dell’umano, nella zona di confine dove la coscienza, la volontà e la sensibilità dell’uomo sono in contatto con le forze oscure che, secondo san Paolo, agiscono nel mondo fin quasi a signoreggiarlo»[107].

Vedere il bene, perseguirlo, perseverare in esso nonostante le difficoltà derivanti da elementi esterni e dalla nostra stessa natura ferita dal peccato originale; voler seguire Cristo in un cammino di conformazione a lui: tutto questo può comportare la decisione eroica di cavare l’occhio destro, tagliare la mano destra, perché tutto il corpo non vada a finire nella Geenna[108].

«Anche nelle situazioni più difficili l'uomo deve osservare la norma morale per essere obbediente al santo comandamento di Dio e coerente con la propria dignità personale. Certamente l'armonia tra libertà e verità domanda, alcune volte, sacrifici non comuni e va conquistata ad alto prezzo: può comportare anche il martirio.

Ma, come l'esperienza universale e quotidiana mostra, l'uomo è tentato di rompere tale armonia: "Non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto... Io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio". Donde deriva, ultimamente, questa scissione interiore dell'uomo? Egli incomincia la sua storia di peccato quando non riconosce più il Signore come suo Creatore, e vuole essere lui stesso a decidere, in totale indipendenza, ciò che è bene e ciò che è male. "Voi diventerete come Dio, conoscendo il bene e il male"[109]: questa è la prima tentazione, a cui fanno eco tutte le altre tentazioni, alle quali l'uomo è più facilmente inclinato a cedere per le ferite della caduta originale»[110].

Le tentazioni contrastano continuamente il cammino del cristiano che vuole conformarsi a Cristo, Modello insostituibile per la sua vita di perfezione evangelica: non c’è proprio bisogno che il discepolo si esponga deliberatamente alle occasioni di peccato. Nello stesso tempo, però, egli ha piena coscienza che Dio ascolta la preghiera insegnata da Gesù: «Non permettere che cadiamo nella tentazione».  Questa è anche la sicurezza confessata da S. Agostino: «Io non so a quali tentazioni possa resistere e a quali no. Io ho speranza, perché tu sei fedele e non permetti che siamo tentati oltre le nostre forze, ma con la tentazione tu ci darai anche la via d’uscita e la forza per sopportarla»[111].

3.3     «Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?»

Dopo aver constatato la difficoltà legata al processo di unificazione della personalità religiosa, Paolo esplode in un grido di angoscia. È il grido di Giobbe[112] e di tutti coloro che devono impegnare le proprie energie in un continuo esercizio di sopravvivenza non esente da rischi mortali. La dissociazione della personalità non può protrarsi all’infinito. Arriva il momento in cui bisogna chiamare a raccolta tutte le energie e integrarle intorno ad un valore centrale che illumini e giustifichi tutta la realtà; un Valore che, storicamente, ha un nome: Gesù Cristo, il Verbo di Dio fatto uomo nel grembo della Vergine. La sua azione redentrice ha ricostituito l’identità del cristiano offuscata dall’idolatria. Ma l’impegno a mantenere integra tale identità esige una profonda comunione di vita con il Salvatore. In tale prospettiva il grido di angoscia cede il posto alla certezza di un nuovo orizzonte relazionale che sta sorgendo per il vivo rapporto con Colui che è la Sorgente della vita.

Paolo si era fermato a descrivere, ancora una volta, la posizione alienata dell’IO, costituzionalmente aperto a Dio, agli altri e al mondo ma tendenzialmente chiuso in un atteggiamento di adorante autocompiacimento. Ora dà un orientamento diverso al suo discorso facendo seguire la risposta positiva nella forma liturgica: «Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!»[113]. L’IO che grida la propria infelicità è identico all’IO che innalza il canto di ringraziamento: l’IO di ieri si confronta con l’IO di oggi.

Ma il passato non costituisce un capitolo chiuso per sempre: esso tende a rivivere costituendo sempre una minaccia. Sarà quindi necessario un atteggiamento di continua vigilanza che, partendo dalla coscienza della debolezza personale e del persistente insorgere delle tentazioni, faccia leva sugli strumenti che Dio stesso ha posto a nostra disposizione e che la tradizione spirituale suggerisce. Si apre il discorso sulla vita nello Spirito. È lo Spirito, infatti, che «intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili»[114]; è lo Spirito che ci offre la certezza di essere figli di Dio e ci fa gridare: «Abbà, Padre»[115]; è lo Spirito che rende presente Cristo e la sua opera di salvezza nella celebrazione dei sacramenti.

 

IV

La vita nuova nello Spirito

 La libertà dal peccato e dalla morte, frutto del mistero di morte e risurrezione di Cristo, è consolidata vitalmente dalla presenza e dall’azione dello Spirito Santo. Affrontando questo argomento centrale della nostra Lettera san Paolo si fa guidare dalla prospettiva già delineata per gli ultimi tempi dal Primo Testamento, come appare soprattutto nei profeti Ezechiele e Gioele. «Darò loro un cuore nuovo e uno spirito nuovo metterò dentro di loro […] perché seguano i miei decreti e osservino le mie leggi e li mettano in pratica; saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio»[116]. «Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei precetti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi»[117]. «Io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli  e le vostre figlie; […] Anche sopra gli schiavi e sulle schiave, in quei giorni, effonderò il mio spirito»[118].

Conosciamo quanto san Luca ci dice dello Spirito Santo negli Atti degli Apostoli, descrivendo l’evento di Pentecoste. Lo Spirito dà una vigorosa spinta ad assumere l’impegno della missione per testimoniare il Vangelo sulle strade del mondo. Difatti gli Atti ci parlano di una serie di missioni compiute dagli Apostoli, prima in Samaria, poi sulla fascia costiera della Palestina, sino a raggiungere la Siria.

Incoraggiati dalla presenza attiva dello Spirito, molti, nella primitiva Chiesa, soprattutto nella comunità di Corinto, consideravano come già realizzata la prospettiva degli ultimi tempi[119], arrivando a non tenere presenti, nella pratica, i confini tra libertà e libertinismo. A questo modo di pensare si oppone decisamente l’Apostolo definendo lo Spirito come primizia[120] e caparra[121] della salvezza ultima e definitiva. L’esistenza di coloro che usufruiscono del dono dello Spirito è tuttora sotto il segno dell’attesa e della speranza.

In un primo momento della esposizione paolina, lo Spirito è presentato soprattutto come potenza di Dio che opera in coloro che vogliono procedere in novità di vita, consapevoli che «quella mirabile condiscendenza dello Spirito incontra nella nostra realtà umana resistenza ed opposizione. L’opposizione a Dio diventa conflitto, ribellione sul terreno etico per quel peccato che prende possesso del cuore umano, nel quale “la carne … ha desideri contrari allo spirito, e lo spirito desideri contrari alla carne”[122]»[123]. Anche se allo Spirito di Dio (Spirito di Cristo) vengono attribuite operazioni ben determinate, la pneumatologia non ha ancora raggiunto la sua pienezza, come si esprime Gregorio Nazianzeno: «Il Vecchio Testamento parlava apertamente del Padre, più oscuramente del Figlio. Il Nuovo ci propone esplicitamente il Figlio e indica piuttosto oscuramente lo Spirito Santo. Ora invece lo Spirito Santo sta con noi e si manifesta ancora più apertamente. Non era, infatti, sufficientemente sicuro parlare apertamente del Figlio, quando la divinità del Padre non era sufficientemente stabilita, e il discorso dello Spirito Santo sarebbe stato troppo grave peso quando la divinità del Figlio non era sufficientemente riconosciuta»[124].

4.1     Debitori verso lo Spirito

La cultura moderna ha contribuito grandemente a «diffondere il valore del rispetto per la dignità umana, favorendone positivamente  il libero sviluppo e l’autonomia. Tale riconoscimento costituisce uno dei tratti più significativi della modernità […]. Senza dimenticare, d’altra parte, che quando la libertà tende a trasformarsi in arbitrio e l’autonomia della persona in indipendenza dal Creatore e dalla relazione con gli altri, allora ci si trova di fronte a forme di idolatria che non accrescono la libertà ma rendono schiavi»[125]. Ancora una volta ci troviamo di fronte al dramma della libertà umana, già evidenziato da Paolo in Rm 7,25. A questo dramma si richiama ora l’Apostolo affermando energicamente: «Nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. Perché la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte»[126].

In questo processo liberatorio Dio non ha aspettato che l’uomo Gli si ponesse di fronte secondo le categorie di merito, ma lo ha preceduto con una libera iniziativa. Manda suo Figlio che non ha conosciuto peccato[127] ma che, tuttavia, si è integrato totalmente nella storia umana compromessa e perduta. Con la sua vita di filiale obbedienza portata fino alle estreme conseguenze, Cristo ha ridato all’uomo la libertà di aprirsi di nuovo ad un rapporto positivo con Dio e, nello stesso tempo, lo ha messo in condizione di uscire dalle strettoie del proprio egocentrismo. La vittoria riportata dal Figlio è tanto più significativa in quanto ottenuta sul campo proprio dell’avversario, nella carne: «Mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e in vista del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne»[128]. «Cristo si è fatto “obbediente fino alla morte e alla morte di croce”[129]. È questo l’aspetto drammatico dell’obbedienza del Figlio, avvolta da un mistero che non potremo mai penetrare totalmente. […]: solo il Figlio che si sente amato dal Padre e lo riama con tutto se stesso, può giungere a questo tipo di obbedienza radicale»[130].

Il cristiano, quindi, non è debitore alla carne e al sangue ma allo Spirito che lo rende creatura nuova e gli offre la possibilità di conformarsi a Cristo, il vero Uomo Nuovo. «Il cristiano, reso conforme all’immagine del Figlio che è primogenito fra molti fratelli[131], riceve le primizie dello Spirito[132], per cui diventa capace di adempiere la legge nuova dell’amore[133]. In virtù di questo Spirito, che è la caparra dell’eredità[134], tutto l’uomo viene interiormente rifatto, fino al traguardo della redenzione del corpo»[135].

Progredendo nella sua esposizione sullo Spirito Paolo riprende e supera il modo di sentire dell’Antico Testamento e del giudaismo. Egli non si ferma soltanto ad illustrare la dimensione dinamica e operativa della Terza Persona della Santissima Trinità, ma ne analizza anche la presenza nella vita del cristiano, la cui identità ne resta contrassegnata. Paolo riflette sullo Spirito esponendo il suo influsso non solo nell’agire del cristiano, ma anche nel suo essere.

Naturalmente la novità di vita avrà la sua piena consistenza quando lo Spirito di Dio non avrà fatto solo un’apparizione fugace, ma abiterà nel cristiano (oikei en umin)[136]. Si stabilirà, allora, una profonda reciprocità tra Cristo e il discepolo sino a postulare la comunione piena nella risurrezione: «Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo non gli appartiene. […] E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi»[137]. Il cristiano, per san Paolo, prima ancora di agire possiede un’interiorità ricca e feconda che gli deriva dai sacramenti del Battesimo e della Confermazione; una interiorità che lo stabilisce in un oggettivo e originale rapporto di filiazione nei confronti di Dio. Di qui la grande dignità: non siamo soltanto immagine, ma figli di Dio.

Per la persona consacrata la novità di vita diventa l’ideale a cui ispirarsi continuamente: «I membri di qualsiasi istituto ricordino anzitutto di aver risposto alla divina chiamata con la professione dei consigli evangelici, in modo che essi, non solo morti al peccato[138], ma rinunziando anche al mondo, vivono per Dio solo. Tutta la loro vita, infatti, è stata posta al servizio di Dio, e ciò costituisce una speciale consacrazione che ha le sue profonde radici nella consacrazione battesimale, e ne è un’espressione più perfetta»[139].

4.2     Figli adottivi di Dio

Scrivendo ai cristiani della Galazia san Paolo ci introduce in questa particolare tematica: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli. E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre»[140]. Questo grido, segno di un rapporto confidente, filiale, per opera dello Spirito Santo è diventato il grido dei credenti, di coloro che hanno ricevuto lo spirito di figli  adottivi: «E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre»[141].

L’azione amorosa della SS. Trinità fa in modo che la persona umana entri in una nuova dimensione che non le era connaturale. Come creatura, l’uomo poteva essere chiamato figlio di Dio così come il Primo Testamento considera il popolo dell’Alleanza, scelto, formato, guidato, nutrito[142]. Ma, per l’incarnazione del Verbo, la realtà dell’uomo è radicalmente cambiata. «Il Verbo fu mandato ad assumere la carne da quella stirpe cui per natura apparteniamo noi: con la conseguenza che, divenendo lui per amore partecipe della nostra mortalità, ha reso noi mediante l’adozione partecipi della sua divinità»[143]. Giovanni Paolo II ha riflettuto sul dono di grazia che ha trasformato la realtà dell’uomo: «L’unione del Cristo con l’uomo è la forza e la sorgente della forza, secondo l’incisiva espressione di san Giovanni nel prologo del suo vangelo[144]. Questa è la forza che trasforma interiormente l’uomo quale principio di una vita nuova che non svanisce e non passa, ma dura per la vita eterna»[145].

Il passaggio alla nuova dimensione di figli di Dio è effettuato dal sacramento del Battesimo. Qui si realizza quella unione profonda con Cristo che san Paolo indica plasticamente con l’espressione rivestirsi di Cristo: «Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo»[146]. È la stessa comunione di cui parla Gesù con l’immagine della vite e dei tralci[147]. «Il Battesimo significa e produce un’incorporazione mistica ma reale al corpo crocifisso e glorioso di Gesù. Mediante il sacramento Gesù unisce il battezzato alla sua morte per unirlo alla sua risurrezione»[148]. Tutte queste riflessioni sono un invito a vivere la nostra figliolanza, ad essere sempre più consapevoli che siamo figli adottivi nella grande famiglia di Dio. È un invito a trasformare questo dono oggettivo in una realtà soggettiva, determinante per il nostro pensare, per il nostro agire, per il nostro essere. Dio ci considera suoi figli avendoci elevati ad una dignità simile, anche se non uguale, a quella di Gesù stesso, l’unico vero Figlio in senso pieno. In lui ci viene donata, o restituita, la condizione filiale e la libertà fiduciosa in rapporto al Padre.

L’incorporazione al corpo crocifisso di Gesù ci ricorda che la nostra condizione di figli raggiungerà la sua pienezza nell’escatologia, quando saremo uniti alla risurrezione di Cristo. Ora essa si evolve nel superamento di lotte e disagi legati alla nostra condizione di creature invitate a scegliere continuamente tra il dominio della carne e quello dello Spirito[149]. Ma nel loro procedere tra difficoltà d’ogni tipo, i figli di Dio sono sostenuti dalla consapevolezza di ciò che sono e dalla speranza della piena realizzazione del piano di Dio: «Io ritengo infatti, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà esser rivelata in noi»[150]. Il peccato, rifiutando l’amore, ha generato la sofferenza nell’uomo che, in qualche modo, si è rovesciata su tutta la creazione: «Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi le doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Poiché nella speranza noi siamo stati salvati»[151].

In questo contesto i figli di Dio sono chiamati a rinnovare la loro speranza nell’avvento definitivo del Regno, come ci ha insegnato Benedetto XVI nella sua enciclica Spe salvi. Come tutti i cristiani, anche le persone consacrate sono invitate a valorizzare e approfondire «i segni di speranza presenti nel nostro tempo, nonostante le ombre che spesso li nascondono ai nostri occhi: i progressi realizzati dalla scienza, dalla tecnica e soprattutto dalla medicina a servizio della vita umana, il più vivo senso di responsabilità nei confronti dell’ambiente….»[152].

Consacrata per essere testimone delle realtà ultime, la persona religiosa è provvista di tutti i doni necessari per indicare ai fratelli e alle sorelle i segni della speranza presenti in questo mondo da trasfigurare giorno per giorno con lo spirito delle beatitudini. Ai consacrati si addicono bene le riflessioni che Giovanni Paolo II sviluppa sulla Chiesa del nostro tempo: «La Chiesa vive questa realtà, vive di questa verità sull’uomo che le permette di varcare le frontiere della temporaneità e, simultaneamente, di pensare con particolare amore e sollecitudine a tutto ciò che, nella dimensione di questa temporaneità, incide sulla vita dell’uomo, sulla vita dello spirito umano in cui si esprime quella perenne inquietudine, secondo le parole di S. Agostino: “Ci hai fatti per te, o Signore, ed è inquieto il nostro cuore finché non riposa in te”[153]. In questa inquietudine creativa batte e pulsa ciò che è più profondamente umano: la ricerca della verità, l’insaziabile bisogno del bene, la fame della libertà, la nostalgia del bello, la voce della coscienza. […] Quel tesoro dell’umanità, arricchito dall’ineffabile mistero della figliolanza divina[154], della grazia di adozione a figli[155] per cui gridiamo Abbà, Padre[156], è insieme una forza potente che unifica la Chiesa soprattutto dal di dentro e dà senso a tutta la sua attività»[157].

La vita nuova ci immette nel cuore del mistero della Redenzione «in cui Cristo, unito al Padre e con ogni uomo ci comunica continuamente quello Spirito che mette in noi i sentimenti del Figlio e ci orienta verso il Padre»[158].  Di conseguenza la persona religiosa, rinnovata nello Spirito per riprodurre lo stile di vita che fu proprio di Cristo e della sua Santissima Madre, avrà particolare bisogno di prendere sempre più coscienza, da esprimere in  una vita unificata, della dignità dell’adozione divina ottenuta per la grazia dello Spirito Santo nel sacramento del Battesimo e nella consacrazione religiosa.

4.3     Alla sorgente della vita

In tutte queste meditazioni, guidati da san Paolo, ci siamo soffermati a contemplare l’azione liberante della SS. Trinità che dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che «mentre eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi»[159]. La giustizia di Dio, il tre volte Santo, non si è manifestata nella condanna ma nel perdono. Nel giudizio preparato da Dio, capovolgendo tutte le nostre categorie, Egli si pone a nostra difesa. Da queste riflessioni conclusive della grande sezione della Lettera, scaturisce l’inno di vittoria dei salvati, intonato da Paolo con una domanda retorica: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?»[160]. In quel “per noi” è racchiuso tutto l’amore paterno/materno di Dio, origine di ogni manifestazione di vita: dalla creazione alla Redenzione, tutto ci parla dell’amore vivificante di Dio. La persona umana ha estremo bisogno di amore, per vivere e per crescere nella vita. «L’uomo viene redento mediante l’amore. Ciò vale già nell’ambito puramente intramondano. Quando uno nella sua vita fa l’esperienza di un grande amore, quello è un momento di redenzione che dà un senso nuovo alla sua vita. Ma ben presto egli si renderà anche conto che l’amore a lui donato non risolve, da solo, il problema della sua vita. È un amore che resta fragile. Può essere distrutto dalla morte. L’essere umano ha bisogno dell’amore incondizionato. Ha bisogno della certezza che gli fa dire: “né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezze né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio che è in Gesù Cristo, nostro Signore”[161]. Se esiste questo amore assoluto con la sua certezza assoluta, allora -soltanto allora- l’uomo è redento, qualunque cosa gli accada nel caso particolare»[162]. «La vita nella sua totalità è relazione con Colui che non muore, che è la sorgente della vita. Se siamo in relazione con Colui che non muore, che è la Vita stessa e lo stesso Amore, allora siamo nella vita. Allora viviamo[163]». Sulla stessa lunghezza d’onda si era posto Agostino quando affermava: «Più di tutto ho sete del Creatore: di lui stesso ho fame, di lui ho sete, a lui dico: “Presso di te è la fonte della vita”[164]»[165]. «Lo Spirito è quella potenza interiore che armonizza il cuore dei  credenti col cuore di Cristo e li muove ad amare i fratelli come li ha amati lui»[166]. Lo Spirito ci immette nel ritmo stesso della vita divina, che è vita di amore, facendoci personalmente partecipi dei rapporti intercorrenti tra il Padre e il Figlio. E poiché, per definizione, l’amore unisce, ciò significa che lo Spirito è creatore di comunione all’interno della comunità cristiana. È anche vero, però, che lo Spirito ci stimola ad intrecciare rapporti di carità con tutti gli uomini. Quando noi amiamo diamo spazio allo Spirito, gli permettiamo di esprimersi in pienezza.

L’amore di Dio che penetra nel nostro essere e lo trasforma in profondità non ci esime dalla lotta. Lo sguardo rivolto al giudizio ultimo è confortante; anche la valutazione dei rischi e delle difficoltà che tentano di intralciare il cammino dei credenti è ricco di fiducia. Con una nuova domanda retorica Paolo introduce la seconda parte dell’inno: «Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo?»[167]. Le esperienze elencate di seguito sono dolorose e umilianti, tali da abbattere la forza morale dell’uomo. Ma il cristiano che vive di Cristo, con Cristo e per Cristo non teme perché «in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci amati»[168].

Il cammino dei credenti nella storia, faticoso e minacciato, è pieno di speranza fondata sull’amore indefettibile di Colui che, in Cristo, si è fatto Dio per noi. Cantato all’ombra della croce di Gesù, l’inno di vittoria non potrà degenerare in espressione di trionfalismo. L’azione silenziosa di Cristo che, con la forza del suo Spirito, ci assicura la vittoria sugli elementi che contrastano il nostro incedere verso la meta finale, è raccontata da san Bernardo: «Vivo e attivo è lui, e appena è entrato, ha destato l’anima mia assopita. Entrando così più volte in me il Verbo non ha fatto mai conoscere la sua venuta da nessun indizio: non dalla voce, non dall’aspetto, non dal passaggio.. Soltanto dal moto del mio cuore ho sentito la sua presenza: dalla fuga dei vizi, dalla stretta dei desideri carnali, ho avvertito la potenza della sua virtù; dalla trasformazione e dal rinnovamento dello spirito della mia mente, cioè del mio uomo interiore, mi son fatto l’idea della sua bellezza»[169].

 

 

V

Il sacrificio spirituale

 

Avviando a conclusione le meditazioni che abbiamo sviluppato con l’aiuto della Lettera ai Romani, possiamo ora evidenziare alcuni temi che hanno illuminato il percorso e che dovrebbero rappresentare le idee/forza utili per avviare un lavoro utile alla unificazione della nostra personalità religiosa.

La nostra identità è chiarita dal rapporto filiale stabilito attraverso un costante dialogo di amore con quel Dio che si rivela in Cristo, Verbo Incarnato. Dio prende sempre l’iniziativa e, pur rivelandosi nelle opere della creazione, si manifesta soprattutto nel progetto di salvezza attuato mediante la vita, passione, morte e risurrezione di Gesù. La nostra risposta consiste nell’accogliere, nella fede, la salvezza proposta dal Padre, nel Figlio, per la potenza dello Spirito Santo; accogliere questo evento perché ha, come oggetto, le nostre persone (la mia persona).

All’azione di Dio noi rispondiamo nella libertà accettando o rifiutando il piano di salvezza. Il rifiuto consiste nel cedere all’antica tentazione di voler costruire la salvezza con le proprie forze, operando fuori dell’influsso divino[170]. È l’idolatria che porta con sé la perdita della nostra specifica identità.

Ma la fedeltà di Dio non viene annullata dalle nostre meschinità. Il Signore manifesta la sua giustizia non condannando, ma perdonando. Mentre noi eravamo ancora peccatori Cristo muore per gli empi e offre la grazia dell’adozione a figli. L’amore di Dio viene effuso nei nostri cuori per l’azione dello Spirito Santo. Il nuovo intervento divino non elimina le lotte e le difficoltà ma infonde la certezza che, in Cristo, saremo vittoriosi: In tutte queste vicende siamo più che vincitori. L’itinerario realizzato sino a questo momento si è concluso con l’inno della speranza fiduciosa.

Ora che le nostre menti sono state illuminate, san Paolo orienta le volontà per una risposta di vita all’azione gratuita e liberante di Dio: fare fruttificare nella nostra esistenza la novità di grazia sperimentata nella fede, nel sacramento e, per noi, nella consacrazione religiosa.

5.1     Offrire i “corpi”

Le esortazioni che, in genere, chiudono le lettere paoline rappresentano l’applicazione alla vita dei principi esposti nella parte dottrinale. Esse non vogliono pagare il tributo ad un moralismo di moda ma si riferiscono ad un’antropologia costruita a partire dalla cristologia. In considerazione dei temi espressi precedentemente, la parenesi di Rm riveste una particolarissima importanza.

«Vi esorto, fratelli, per la misericordia di Dio»[171].  Il passaggio dalla morte alla vita, la giustificazione operata da Dio in Cristo e per la potenza dello Spirito Santo, sono il risultato della benevolenza misericordiosa di Dio. Ed è la stessa misericordia che ora tratteggia le caratteristiche dell’uomo nuovo, giustificato per il sangue di Cristo. Potremmo affermare che Dio non vuole che si sprechi il caro prezzo con cui siamo stati riscattati. Con questo inizio Paolo ci ricorda la necessità di una nostra risposta all’azione gratuita e liberante di Dio.

L’oggetto della esortazione si riferisce ad un atteggiamento cultuale che riproduce nella nostra esistenza il mistero pasquale vissuto dal Verbo Incarnato. «Vi esorto […] ad offrire i vostri corpi  come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale»[172]. Quando Paolo parla di corpo (swma) non intende richiamarsi esclusivamente all’elemento fisico. Secondo la sua antropologia, che è quella cristiana, l’uomo non ha un corpo, ma è corpo; non ha un’anima, ma è anima. Parlando di corpo,  di membra, si vuole intendere l’uomo in quanto soggetto di quelle relazioni che sono rese possibili dalla mediazione dell’elemento fisico. Le relazioni dell’uomo lontano da Dio sono state inficiate da quel cumulo di aberrazioni descritte da Paolo nel capitolo primo della nostra Lettera e che hanno toccato, soprattutto, la sfera fisica, rendendo l’uomo schiavo del peccato. Con/sepolti con Cristo nel Battesimo[173], i cristiani sono diventati nuove creature, incorporati al corpo glorioso di Cristo. Per questo l’Apostolo aveva già potuto esortare: «Come avete messo le vostre membra a servizio dell’impurità e dell’iniquità a pro dell’iniquità, così ora mettete le vostre membra a servizio della giustizia per la vostra santificazione»[174]. La nuova offerta cultuale, dunque, si riferisce a tutta la persona umana, divenuta soggetto di nuove relazioni con Dio, con gli altri, con il mondo. “Offrire il corpo” vorrà significare, anche, rafforzarsi nella consapevolezza della dignità della persona umana, creata da Dio, redenta per l’Incarnazione, vita, passione, morte e risurrezione del Figlio di Dio, divenuta abitacolo dello Spirito Santo[175].

Il sacrificio che si chiede è un sacrificio vivente, santo e gradito a Dio. Non si tratta più di offrire a Dio qualcosa che ci appartiene, ma che sta fuori di noi. Il cristiano, rinnovato in Cristo, è ora in grado di dare una nuova dimensione a tutte le sue relazioni destinate a partire da Dio per arrivare a Dio. Ciò si esprime nella vita di ogni giorno in cui i cristiani sono, nello stesso tempo, vittime e sacerdoti. Appare abolito il codice della sacralità, della separazione di quanto è profano dall’area del tempio e da tutta la realtà abitualmente dichiarata sacra.

Tutto ciò viene definito da Paolo come culto spirituale. Risuona in questa espressione la presa di posizione dei profeti nei confronti del ritualismo[176]. Nello stesso tempo, e tenuto conto di ciò che significa essere incorporati in Cristo, viene rifiutata qualsiasi concezione spiritualistica, come ha potuto notare Benedetto XVI: «L’essere in comunione con Gesù Cristo ci coinvolge nel suo essere per tutti, ne fa il nostro modo d’essere. Egli ci impegna per gli altri, ma solo nella comunione con lui diventa possibile esserci veramente per gli altri»[177]. È sottintesa un’antropologia che vede nell’uomo non un io interiore, individualistico e spiritualistico, ma un essere qualificato da strutturale relazionalità socializzante e mondana.

A ben pensare l’offerta dei corpi, come offerta di tutta la persona, chiama direttamente in causa la nostra consacrazione religiosa dove la trilogia dei voti interessa la totalità della nostra realtà di persone umane aperte alla relazione con Dio, con noi stessi, con gli altri e con il mondo. Con queste prime battute della sua parenesi, san Paolo ci invita a realizzare la liturgia della vita, alla espropriazione di noi stessi perché possiamo diventare mediazione del divino nel mondo, sull’esempio di Cristo, «agnello senza difetti e senza macchia»[178], che è venuto a dare la vita in riscatto per tutti.

5.2  Discernere la volontà di Dio

L’offerta sacrificale della propria persona si concretizza nella piena adesione alla Volontà di Dio da ricercare e attuare con amore. Nella stessa attuazione amorosa della volontà divina Gesù ha indicato la condizione per entrare nel regno dei cieli: «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli»[179].

Conoscere la volontà divina equivale a discernere il vero bene, a non farsi suggestionare dalle promesse del mondo, a riconoscere il tempo in cui veniamo visitati dallo Spirito[180].

La ricerca della volontà di Dio mette in moto tutte le nostre potenze ed è motivata  essenzialmente dall’amore. È un percorso in salita che apre nuovi, inattesi orizzonti, ma è faticoso perché esige anche il cambiamento dell’interiorità, della mente, della coscienza. Ci sembra molto più facile attenerci scrupolosamente a ciò che è stato già stabilito e che non richiede, da noi, uno sforzo di ricerca. Ma la vita cristiana non consiste in una serie di norme da rispettare o di raccomandazioni paternalistiche cui obbedire; essa nasce dalla capacità interiore di riconoscere e scegliere il bene. Per tutte queste ragioni, insieme con l’offerta della propria persona, il costante atteggiamento di discernimento rappresenta un vero culto spirituale che tocca fondamentalmente l’intelligenza e la volontà dell’uomo.

Secondo san Paolo il processo di discernimento comporta due movimenti, uno negativo e l’altro positivo: «Non conformatevi alla mentalità di questo secolo,

                                                        ma trasformatevi rinnovando la vostra mente

per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto»[181]. La bontà, il beneplacito divino e la perfezione sono i contenuti della volontà di Dio. Facendo riferimento alla psicologia, si potrebbe dire che san Paolo esiga la destrutturazione della personalità mondana per arrivare a strutturare la nuova personalità che si fonda sulla conformazione a Cristo morto e risorto. In effetti, per conoscere e mettere in pratica la volontà di Dio, è necessario che ci si liberi dal modo di pensare di questo mondo che privilegia l’individualismo, il soggettivismo, con il conseguente relativismo, per cui è vero, bene, perfetto ciò che soddisfa e promuove la realizzazione del soggetto.

L’aspetto positivo proposto dall’Apostolo sembra esigere un particolare sforzo di volontà da parte dell’individuo: «trasformatevi, rinnovando la vostra mente». In realtà, però, l’atteggiamento spirituale sotteso ai due movimenti è unico: configurarsi a Gesù Cristo, assumere il suo modo di pensare, i suoi criteri di giudizio, il suo modo personale di porsi di fronte al Padre e ai fratelli. Si tratta di superare vecchi schemi consoni al vecchio mondo e di assumere la logica del vangelo. Per comprendere sempre meglio quello che Paolo intende in questa esortazione, è opportuno fare un raffronto con un passo parallelo: «E noi tutti, a viso scoperto, contemplando e riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore»[182]. La ricerca della volontà di Dio, il rinnovamento della nostra mente diventano, allora, il risultato dello stare continuamente alla presenza di Dio, in amoroso atteggiamento contemplativo.

Per realizzare la tensione a vivere di Dio, con Dio e per Dio, la spiritualità cristiana propone ora con maggiore insistenza uno strumento che si aggancia alle esigenze già espresse nel Primo Testamento: l’ascolto della Parola. «L’obbedienza propria della persona credente è l’adesione alla Parola con la quale Dio rivela e comunica se stesso, e attraverso la quale rinnova ogni giorno la sua alleanza d’amore. Da quella Parola è scaturita la vita che ogni giorno continua ad essere trasmessa. Perciò la persona credente cerca ogni mattina il contatto vivo e costante con la Parola che in quel giorno è proclamata, meditandola e custodendola nel cuore come un tesoro, facendone la radice di ogni azione e il criterio primo di ogni scelta. […] L’amorosa frequentazione quotidiana della Parola educa a scoprire le vie della vita e le modalità attraverso le quali Dio vuole liberare i suoi figli; alimenta l’istinto spirituale per le cose che piacciono a Dio; trasmette il  senso e il gusto della sua volontà»[183].

Dio si rivela nella sua Parola; in essa ci fa conoscere il suo progetto di salvezza che interessa l’umanità intera e, anche, ogni singolo individuo. A noi, in quanto religiosi, Dio manifesta la sua volontà anche nel carisma della Congregazione; tutti i cristiani sono chiamati alla santità, alla configurazione con Cristo. Non tutti, però, sono chiamati allo stesso modo. I Fondatori hanno avuto il dono di fissare il proprio sguardo contemplativo su un aspetto particolare del mistero di Cristo. Di conseguenza la loro vita è diventata una viva testimonianza di quel mistero. Attraverso di loro il  Signore ci indica il cammino per la nostra santificazione. Approvando una Congregazione religiosa, la Chiesa dichiara implicitamente di aver bisogno di uomini e donne che ri/presentino quel particolare aspetto del mistero di Cristo. «Approvando un progetto carismatico quale è un Istituto religioso, la Chiesa garantisce che le ispirazioni che lo animano e le norme che lo reggono possono dar luogo ad un itinerario di ricerca di Dio e di santità»[184]. L’insistenza sulla fedeltà dinamica al carisma della Congregazione non corrisponde ad una esaltazione corporativistica ma è una rilevante forma di obbedienza allo Spirito Santo. Discernere la volontà di Dio, per esprimere nella vita il sacrificio spirituale vorrà dire, allora, assimilare e riportare nella nostra vita i tratti caratteristici che delineano un particolare aspetto del mistero di Cristo.  

Dio parla anche attraverso le mediazioni umane nonostante le loro frequenti ambiguità. Proprio perché umane, queste mediazioni portano con sé le limitazioni spazio/temporali tipiche di ogni realtà umana. Di conseguenza, per arrivare a discernere il nocciolo della volontà divina sarà necessario verificare la corrispondenza della mediazione ai criteri che accompagnano ogni forma di discernimento: evangelico, carismatico, ecclesiale. Questo particolare impegno diventa indispensabile nelle scelte che siamo chiamati a fare tutti i giorni. «Alla persona consacrata può avvenire di imparare l’obbedienza anche a partire dalla sofferenza, ovvero da alcune situazioni particolari e difficili: quando, ad esempio, viene domandato di lasciare certi progetti e idee personali, di rinunciare alla pretesa di gestire da soli la vita e la missione; o tutte le volte in cui ciò che viene richiesto (o chi lo richiede)  appare umanamene poco convincente. Chi si trova in tali situazioni non dimentichi, allora, che la mediazione è per natura sua limitata e inferiore a ciò a cui rimanda, tanto più se si tratta della mediazione umana nei  confronti della volontà di Dio»[185].

La ricerca amorosa della Volontà di Dio dà forma sacrificale e spirituale all’offerta della propria persona. 

 

VI

L’amore di Dio è stato effuso ne nostri cuori

 

Le meditazioni che, in questi giorni, hanno illuminato le nostre menti, dovevano indurci ad assumere un atteggiamento di gratitudine nei confronti di Dio. La nostra vocazione iniziale, il consolidamento in essa, la giustificazione che ci rende figli nel Figlio, l’apertura verso nuovi orizzonti operativi, tutto è frutto dell’amore preveniente e gratuito di Dio. Ancora una volta, e con rinnovata meraviglia, possiamo ripetere con Giovanni: «Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! […] Noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato»[186]. Come tutta la nostra realtà spirituale, anche la giustificazione e la figliolanza divina si sviluppano tra i due estremi: già e non ancora. C’è, però, un filo rosso che congiunge i due estremi e dà continuità al nostro incedere verso la meta definitiva, l’amore di Dio effuso nei nostri cuori.

Naturalmente non possiamo pensare che l’intervento amoroso e gratuito di Dio sollevi l’uomo dalle sue responsabilità. La potenza liberatrice di Dio, che si disvela nella predicazione non si limita all’ambito dell’io profondo della persona, ma si estende anche al campo operativo. Ciò spiega, nella nostra Lettera, la parte parenetica che segue ai capitoli 1-11, sulla quale abbiamo già cominciato a fissare l’attenzione.

6.1     La nostra risposta parte dalla consapevolezza del proprio limite

Iniziando la riflessione sul capitolo 12 della Lettera ai Romani avevamo constatato che il soggetto dell’esortazione era “la misericordia di Dio”. Continuando nella lettura della parenesi, ancora una volta ci viene suggerito che il soggetto è Dio che ha elargito a Paolo la grazia dell’apostolato; questa stessa grazia del Padre è evento di salvezza per i credenti e voce che sollecita i beneficiari all’obbedienza nella quotidianità della vita: «Per la grazia che mi è stata concessa, io dico a ciascuno di voi: non valutatevi più di quanto è conveniente, ma valutatevi in maniera da avere di voi un giusto concetto, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato»[187].

Qui non si tratta tanto di umiltà, come era stato chiesto ai cristiani di Filippi[188], ma del riconoscimento del proprio limite. È quasi scontato il riferimento alla situazione in cui versava la chiesa di Corinto[189]. Facilmente anche tra i cristiani di Roma si diffondeva una certa sopravvalutazione dei fenomeni carismatici e la conseguente esaltazione della persona particolarmente gratificata dallo Spirito. Allora, come ora, i fenomeni carismatici erano accompagnati dal complesso della primogenitura: “Siamo gli unici…, siamo i più…, siamo quasi indispensabili…”.

Anche sotto il profilo psicologico lo sviluppo della personalità è fondato su di una giusta autostima. A livello di fede l’adeguata valutazione dei carismi deriva dalla consapevolezza che i doni dello Spirito non divinizzano i beneficiari, ma li rendono idonei ad agire (a servire) per il bene della comunità. A tale scopo Paolo volge lo sguardo a tutta la comunità dei credenti tra i quali lo Spirito opera per la comunione: «Poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e questa membra non hanno tutte la stessa funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri»[190]. La similitudine del corpo frequentemente usata dagli scrittori antichi, acquista qui una nuova connotazione per l’inciso “in Cristo”, come viene confermato nella esortazione ai Galati: «Tutti voi siete uno in Cristo»[191]. I cristiani non sono soltanto membra di un solo corpo, ma formano il corpo di Cristo. Paolo ci fa capire che esiste non solo un’appartenenza della Chiesa a Cristo, ma anche una certa forma di equiparazione e di immedesimazione della Chiesa con Cristo stesso. Di qui deriva la grandezza e la nobiltà della Chiesa, cioè di tutti noi che ne facciamo parte: dall’essere noi membra di Cristo, quasi una estensione della sua personale presenza nel mondo. Da qui derivano anche le esortazioni di Paolo a proposito dei vari carismi che animano e strutturano la comunità cristiana. Ciascuno, in risposta al dono ricevuto e sviluppando la funzione che ne deriva, è chiamato a collaborare per l’edificazione del corpo di Cristo. Da questo Capo «tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità»[192].

La conclusione del discorso è ovvia: ogni cristiano ha avuto il suo dono che dovrà utilizzare per il bene comune e senza travalicare i confini dello stesso dono. «Chi ha il dono della profezia lo eserciti secondo la misura della fede; chi ha un ministero attenda al ministero; chi l’insegnamento all’insegnamento; chi l’esortazione all’esortazione»[193].

Dall’esortazione paolina scaturiscono alcune applicazioni per la nostra vita di ogni giorno. Come religiosi ci caratterizziamo soprattutto per il dono della profezia intimamente e indissolubilmente unito a quello del carisma proprio di ogni Congregazione. Ricercando il cammino di santità indicato dal carisma e configurandoci a Cristo da ripresentare secondo la tipicità del mistero contemplato, rendiamo operativo il dono della profezia: a coloro che il Signore pone sulla nostra strada indichiamo il percorso di santità a cui Dio li chiama. Nello stesso tempo, nell’ambito della nostra comunità, ci impegniamo a forgiare una cellula viva del Corpo di Cristo. Difatti «la comunità è tale quale la rendono i suoi membri: dunque sarà fondamentale stimolare i suoi membri e motivare il contributo di tutte le persone, perché ognuna senta il dovere di dare il proprio apporto di carità, competenza e creatività. Tutte le risorse umane vanno infatti potenziate e fatte convergere nel progetto comunitario, motivandole e rispettandole»[194]. Certamente la maggior parte delle nostre comunità sta soffrendo per lo scarso numero delle persone. Ma non possiamo dimenticare che molte di queste, tuttora valide, vengono parcheggiate in alcune comunità senza che venga dato loro la possibilità di esprimere le ricchezze della loro esperienza e competenza. Purtroppo, però, è anche vero che molte persone consacrate si accomodano in situazioni di prepensionamento o di pensionamento, in attesa soltanto di arrivare alla “buona morte”.

San Paolo ci esorta a non sopravvalutare i doni ricevuti, a non idolatrare la persona, ma ad esprimerci in conformità ai carismi personali e comunitari, perché il Corpo di Cristo sia edificato nella carità. Ancora una volta l’insistenza è un richiamo alla consapevolezza: non abbiamo bisogno di inoltrarci per tante strade che ci sembrano ottimali solo perché sono percorse da altri: a ciascuno il suo dono; non possiamo rinunciare alla nostra specifica identità, voluta da Dio per la nostra santificazione e per il bene delle anime. A suo sostegno dobbiamo dare tutta la nostra partecipazione.

6.2     Pieno compimento della legge è l’amore

Paolo porta a termine la sua parenesi esigendo dai Romani dei comportamenti etici che abbracciano tutte le manifestazioni della vita: il rapporto fraterno, la tolleranza e longanimità nei confronti dei più deboli, il rapporto con le autorità… Ma il motivo di fondo che dà ragione a questa serie di precetti è l’amore. Un amore fraterno, sincero: «La carità non abbia finzioni: fuggite il male con orrore, attaccatevi al bene; amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda»[195].

Le relazioni reciproche di coloro che avevano aderito al Vangelo erano andate oltre la carne e il sangue per assumere una nuova dimensione; fra i battezzati «non c’è più Giudeo né Greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù»[196]. L’unità dei cristiani è  delineata e messa ulteriormente in evidenza dall’attributo “fratelli” che ha accompagnato sempre lo sviluppo della Chiesa e ha trovato la sua collocazione ideale nelle comunità religiose. Ma anche noi sappiamo quanto sia facile dare alle espressioni “fratello”, “sorella” una risonanza esclusivamente formale. Per questo Paolo insiste sulla sincerità nei rapporti e sulla loro qualità: «amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno».

In definitiva, è in gioco un rapporto di comunione: quello verticale tra Gesù Cristo e tutti noi, ma anche quello orizzontale tra tutti coloro che si distinguono nel mondo per il fatto di «invocare il nome del Signore nostro Gesù Cristo»[197]. È importante tenere costantemente presente il riferimento a Cristo Gesù. Solo in lui, infatti, acquistano nuovo valore i rapporti interpersonali. A tutti i fedeli, ma a noi religiosi in particolare, si addicono  le riflessioni di Benedetto XVI: «Allora imparo a guardare quest’altra persona non più soltanto con i miei occhi e con i miei sentimenti, ma secondo la prospettiva di Gesù Cristo. Il suo amico è mio amico. […] Io vedo con gli occhi di Cristo e posso dare all’altro ben più che le cose esternamente necessarie: posso donargli lo sguardo di amore di cui egli ha bisogno»[198].

Ma, oltre al ricorso continuo alla Fonte dell’amore, come possiamo, in  concreto, arrivare a vivere questo amore fraterno, sincero? Partendo dall’aspetto negativo ci viene suggerito: «Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria»[199]. Procedendo nella medesima linea e collegandosi a quanto aveva già richiesto in precedenza[200], Paolo ritorna sull’argomento dell’autostima: «Non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili. Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi»[201]. Sotto il profilo positivo, nella nostra Lettera, l’Apostolo aggiunge: «gareggiate nello stimarvi a vicenda». Tutti siamo consapevoli che la stima non può essere imposta. Sappiamo anche, però, che essa può essere indotta quando non fissiamo la nostra attenzione esclusivamente sugli aspetti negativi degli altri, ma cerchiamo di scoprire anche i loro lati positivi.

Sapendo quanto sia facile mancare di carità con la lingua[202] soprattutto quando, non avendo nulla da fare si occupa il tempo pettegolando di tutto e di tutti, l’Apostolo aveva già raccomandato: «Vi esorto, fratelli, a farlo ancora di più (amarsi più intensamente) e a farvi un punto di onore: vivere in pace, attendere alle cose vostre e a lavorare con le vostre mani»[203].

La spiritualità cristiana indica molti mezzi per arrivare ad esercitare la carità fraterna così come Paolo richiede ai fedeli delle comunità da lui fondate o visitate. Tra questi, per noi religiosi, è importante anche coltivare il senso di appartenenza a quella famiglia di cui fanno parte anche i nostri fratelli e le nostre sorelle. Tale senso di appartenenza richiede che tutti contribuiamo, soprattutto in certe occasioni, alla crescita armonica della comunità senza cedere alla tentazione della delega. Uno di questi momenti si ha quando siamo chiamati a realizzare il discernimento comunitario. «Alcune volte, quando il diritto proprio lo prevede o quando lo richiede la rilevanza della decisione da prendere, la ricerca di una risposta adeguata è affidata al discernimento comunitario, nel quale si tratta di ascoltare ciò che lo Spirito dice alla comunità. Se il discernimento vero e  proprio è riservato alle decisioni più importanti, lo spirito di discernimento dovrebbe caratterizzare ogni processo decisionale che coinvolga la comunità»[204].

 

Lo scopo fondamentale degli esercizi spirituali consiste nell’indicare un cammino di conversione. In questi giorni, guidati da san Paolo e sotto la luce dello Spirito Santo, siamo partiti da una maggiore consapevolezza della nostra identità sempre esposta, però, al pericolo della idolatria, alla tentazione del ripiegamento su noi stessi, con la conseguente estromissione di Dio. L’avvio della nostra conversione è segnato dalla rilevanza che riusciremo a dare, nella vita di ogni giorno, ai due principali comandamenti della Legge[205]. Ancora una volta ci possono essere utili le riflessioni del Papa: «Se il contatto con Dio manca del tutto nella mia vita, posso vedere nell’altro sempre e soltanto l’altro e non riesco a riconoscere in lui l’immagine divina. Se però nella mia vita tralascio completamente l’attenzione per l’altro, volendo essere solamente pio e compiere i miei doveri religiosi, allora s’inaridisce anche il rapporto con Dio. Allora questo rapporto è soltanto corretto, ma senza amore.  Solo la mia disponibilità ad andare incontro al prossimo, a mostrargli amore, mi rende sensibile anche di fronte a Dio. Solo il servizio al prossimo apre i miei occhi su quello che Dio fa per me e su come Egli mi ama»[206].

Attraverso questo processo di conversione daremo nuovo vigore alla nostra identità di «figli del Padre celeste che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti»[207].

 


 

[1] At 22,3ab

[2] La città di Tarso era situata tra l’Anatolia e la Siria

[3] cfr At 18,3

[4] cfr At 20,34; 1Cor 4,12; 2Cor 12,13-14

[5] 2Cor 11,24-25; cfr At 22,19; 26,1

[6] Fil 3,12

[7] 1Cor 9,22

[8] cfr 2Cor 11, 23-28

[9] 2Ts, Col, Ef, lettere pastorali

[10] 14 lettere, compresa Eb

[11] cfr Rm 15,24.28

[12] Tutta la presentazione è stata ricavata da R. Fabris, Paolo, Paoline 1997, e dalle catechesi di Benedetto XVI

[13] Fil 3,12

[14] Ibidem, 7-8

[15] cfr 2Sam 3,18; 1Re 11,13; 18,36; 2Re 9,7; Sal 119,125; 143,12…

[16] Sal 16,2

[17] cfr 1Cor 1,1; 15,9; 2Cor 4,6; Gal 1,1.15

[18] Is 49, 1.3.6

[19] Ger 1,5. Il riferimento a questi testi profetici appariva ancora più esplicito in Gal 1,15-17

[20] cfr Rm 1,16; 1Cor 9,16-18. La stessa fiducia nella potenza della Parola è manifestata da Paolo quando affida gli anziani di Efeso «alla parola della grazia che ha il potere di edificare e di concedere l’eredità con tutti i santificati» (cfr. At 20,32)

[21] cfr Rm 3,24; Ef 2,4-8; 1Cor 3,6-7.9

[22] At 9, 6

[23] Gal 2,20

[24] Rm 1,2-4

[25] Ibidem, 5

[26] 2Tm 3,16

[27] Ef 5,26-27

[28] Rm 6,3-5

[29] Col 2,12-13

[30] Idem 3,26-27

[31] Benedetto XVI Spe salvi, 10

[32] Idem, 12

[33] 1Gv 2,6

[34] Rm 1,5

[35] Ibidem, 7

[36] Eb 11.27

[37] Benedetto XVI, Spe salvi, 8

[38] Rm  1,1

[39] Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale su alcni aspetti della evangelizzazione, 6; Città del Vaticano, 03.12.2007

[40] Idem, 2

[41] Rm 1,16

[42] cfr. Mc 8, 38; Lc 9, 26

[43] Rm 1,1

[44] «Il peccato è una mancanza contro la ragione, la verità, la retta coscienza; è una trasgressione in ordine all’amore vero, verso Dio e verso il prossimo, a causa di un perverso attaccamento a certi beni. Esso ferisce la natura dell’uomo e attenta alla solidarietà umana» (CCC 1849) .

[45] Concilio Ecumenico Vaticano II, GS 9

[46] 1Cor 15,3

[47] cfr. Lc 18,13

[48] Rm 3,23

[49] 1Gv 1,8

[50] Fil 3,6

[51] 1Cor 15,9

[52] Gv 1,9

[53] Ef 5,8

[54] 1Pt 1,22

[55] Gv 8,44

[56] cfr. 1Ts 1,9

[57] Rm 1,25

[58] Gv 18,38

[59] Giovanni Paolo II, Veritatis splendor, 1

[60] cfr. l’adorazione del vitello d’oro nel deserto (Es 32) o la ribellione a Baal-Peor (Num 25) e l’ammonizione di Dt 11,19 («allora si accenderebbe contro di voi l’ira di Dio»)

[61] Sap 13,1

[62] Rm 1,26

[63] Id. 2,1

[64] 1Tm 6,16

[65] Rm 1,20

[66] Gv 1,18

[67] 1Tm 6,16

[68] Tt 3,4

[69] Giovanni Paolo II, Dives in misericordia, 2

[70] Rm. 2,17-21

[71] Id. 2,29

[72] Id. 2,4

[73] 2Pt 3,15

[74] Rm 3, 23

[75] Sir 5, 6-7

[76] Ap 3,15-16

[77] Rm 12,11.13

[78] Rm 3,28

[79] Gal 2,16

[80] Is 52,3

[81] cfr. Is 45,13

[82] Gv 3,16

[83] GS 22

[84] cfr. Rm 8,18-19

[85] Giovanni Paolo II, Redemptor hominis, 9

[86] Rm 3,24

[87] Ibidem, 24-26

[88] Ibidem, 25-26

[89] Rm 5,5

[90] Ibidem, v. 6

[91] Ibidem, v. 8

[92] cfr Lc  15,11ss

[93] Rm 5,20,21

[94] Rm 6,1-2

[95] Rm 6,5-9

[96] Ibidem, 4

[97] 2Cor 5,21

[98] Rm 6,8

[99] Rm 6,12-13

[100] 1Gv 3,1

[101] Ibidem, 2

[102] Ibidem, 9

[103] Rm 7,14-18

[104] cfr 2Ts 2,7

[105] Teresa d’Avila, Cammino di perfezione, 67/2

[106] Fil 3,10-12

[107] Giovanni Paolo II, Reconciliatio et paenitentia, 14

[108] cfr. Mt 5,29-30

[109] Gen 3,5

[110] Giovanni Paolo II, Veritatis splendor, 102

[111] S. Agostino, Confessioni,10/5

[112] Gb 3,1-26

[113] Rm 7,25

[114] Rm 8,26b

[115] Ibidem, v.15

[116] Ez 11,19-20

[117] Idem, 36,27

[118] Gl 3,1-2

[119] cfr 1Cor 12-14

[120] Rm 8,23

[121] 2Cor 1,22

[122] Gal 5,17

[123] Giovanni Paolo II, Dominum e vivificantem, 55

[124] Gregorio Nazianzeno, Oratio, 31

[125] Congregazione per IVCSVA, Il servizio dell’autorità e l’obbedienza, 2, Città del Vaticano 2008

[126] Rm 8,1-2

[127] 2Cor 5,21

[128] Rm 8,3b

[129] Fil 2,8

[130] Congregazione per gli IVCSVA, cit.,8

[131] cfr Rm 8,29; Col 1,18

[132] Rm 8,23

[133] cfr Rm 8,1-11

[134] Ef 1,14

[135] Concilio Ecumenico Vaticano II, GS 22/d

[136] Rm 8,9

[137] Ibidem, vv 9b-11

[138] cfr. Rm 6,11

[139] Concilio Ecumenico Vaticano II, PC 5/a

[140] Gal 4,4-6

[141] Rm 8,15

[142] cfr Is 63,16; 64,7; Ger 3,19; Os 2,1; 11,1…

[143] S. Agostino, Consenso Evang., 200

[144] cfr Gv 1,12

[145] Giovanni Paolo II, Redemptor hominis, 18

[146] Gal 3,27; cfr Ef 4,22-24; Col 3,9-10

[147] cfr Gv 15,5

[148] Giovanni Paolo II, Christifideles laici, 12

[149] cfr Rm 8,5-8

[150] Ibidem ,v. 18

[151] Ibidem, 22-24

[152] Giovanni Paolo II, Tertio Millennio adveniente, 46

[153] S. Agostino, Confessioni, I/1

[154] cfr. Gv 1,12

[155] Gal 4,5

[156] Ide, 4,6; Rm 8,15

[157] Giovanni Paolo II, Redemptor hominis, 18

[158] Idem, Ibidem

[159] Rm 5,6

[160] Idem, 8,31

[161] Ibidem, 38-39

[162] Benedetto XVI, Spe salvi, 26

[163] Idem, 27

[164] Sal 36,10

[165] S. Agostino, Sermo 158, 7

[166] Benedetto XVI, Deus caritas est, 19

[167] Rm 8,35

[168] Ibidem, 37

[169] Bernardo di Chiaravalle, In Cant. Canti., Sermo 74,6

[170] cfr Gen 3,1-13; 11,1-9; … Benedetto XVI, Spe salvi , 16-23

[171] Rm 12,1

[172] Ibidem

[173] Rm 6, 4

[174] Rm 6,19

[175] cfr 1Cor 6,19-20

[176] cfr Is 1,10-18; Os 6, 6; Am 5,21-25

[177] Benedetto XVI, Spe salvi, 28

[178] 1Pt 1,19

[179] Mt 7,21

[180] cfr Lc 19, 41-42.44b

[181] Rm 12,2

[182] 2Cor 3,18

[183] Congregazione per IVCSVA, cit., 7

[184] Idem, 9

[185] Idem, 10

[186] 1Gv 3,1-2

[187] Rm 12,3

[188] cfr Fil 2, 3ss

[189] cfr 1Cor 12-14

[190] Rm 12,4-5

[191] Gal 3,28

[192] Ef 4,16

[193] Rm 12,6-8

[194] Congregazione per IVCSVA, La vita fraterna in comunità, 32

[195] Rm 12,9-10

[196] Gal 3,28

[197] 1Cor 1,2

[198] Benedetto XVI, Deus caritas est, 18

[199] Fil 2,3a

[200] cfr Rm 12,1

[201] Rm 12,16

[202] cfr Gc 3,1-10

[203] 1Ts  4, 10b-11; cfr 2Ts 3,10-12

[204] Congregazione per gli IVCSVC, Il servizio dell’autorità, cit.  20/e

[205] cfr Mt 5,37-40

[206] Benedetto XVI, Deus caritas est, 18

[207] Mt 5,43-48